Anche la nona sera, mastro Catrame fu puntuale come il cronometro di bordo. Battevano le otto quando si vide il suo berretto, vecchio di almeno mezzo secolo, spuntare dal boccaporto, poi apparire quel lungo corpo magro, ma ancora robusto.
Si spinse fino a prua per osservare lo stato del mare e del cielo, fece bracciare la vella di parrocchetto onde prendesse più vento, diede uno sguardo alla bussola per accertarsi dell’esattezza della ruota, poi accese la sua pipa e andò a sedersi al suo solito posto, sul trono, come diceva scherzando l’equipaggio.
Pochi istanti dopo, tutto l’uditorio era a lui d’intorno, poiché la curiosità non scemava, anzi cresceva ogni sera, e tutti avrebbero voluto che il capitano prolungasse ad altri giorni ancora la pena del povero vecchio, quantunque certe volte avesse narrato delle storie così lugubri da sconvolgere il sangue a più d’uno e mettere indosso a tutti delle brutte paure.
Papà Catrame doveva, durante il giorno, aver già pensata e preparata la sua novella, poiché, appena seduto, senza preamboli e senza farci attendere, come era solito, disse:
– Vi narrerò questa sera l’incontro da me fatto d’un mostro spaventevole, di cui si sono occupati a lungo i così detti scienziati, alcuni affermandone l’esistenza e altri negandola spudoratamente. Non intendo parlare di uno di quei mostri immensi che i popoli nordici chiamano kraken, né di quello segnalato da Olaus Magnus, vescovo di Upsala, e che si disse avesse un miglio di lunghezza e somigliasse più a un’isola che a un pesce; né di quell’altro veduto da un prete scandinavo e sul cui corpo celebrò la santa messa, avendolo scambiato per una roccia. No: papà Catrame è più ragionevole di quello che sembra, né è poi tanto credenzone quanto lo giudica il signor capitano, e a frottole così colossali non presta fede.
– Non dico che quei due santi uomini non possono aver veduto dei mostri enormi, forse simili a quello incontrato dal comandante dell’avviso a vapore Alecto, fra Madera e le isole Canarie, or son pochi anni, e di cui si conserva ancora un pezzo di coda o di braccio a Santa Croce di Tenerife; quello era un polipo, grandissimo si, ma non tale da scambiarlo per un’isola. Lasciamo però andare questi kraken delle leggende nordiche e occupiamoci del mio mostro.
– L’hai proprio veduto tu? – gli chiese il capitano, che prestava una profonda attenzione.
– Coi miei occhi.
– Di giorno?
– Di notte: c’era però la luna e ci si vedeva abbastanza bene.
– Allora cominciano a nascermi dei dubbi.
– E quali, se è permesso conoscerli? – chiese il vecchio con tono risentito.
– Te li dirò più tardi; ora prosegui perché non sappiamo ancora di quale mostro tu intenda parlare.
– Ebbene, avete mai udito parlare del serpente marino?
– Sì, sì, – esclamarono tutti.
– Credete alla sua esistenza?
Nessuno rispose; tutti ci guardammo l’un l’altro in viso, non sapendo dire né si, né no; ma sono certo che i più inclinati al meraviglioso, come tutti i marinai, avrebbero risposto in modo affermativo, piuttosto che negativamente.
– Forse non credete, – riprese papà Catrame; – ma avete torto, poiché, ve lo ripeto, l’ho veduto io coi miei occhi. Come dissi, l’esistenza di questo mostruoso serpente fu messa lungamente in dubbio anche dai più vecchi marinai; però alcuni affermarono, in epoche diverse, di averlo incontrato. Le opinioni loro naturalmente sono disparate: altri dicevano che era lungo più di mille metri, altri cinquecento: altri riducevano la misura a più modeste proporzioni, a cento, a cinquanta; non però a meno.
– Chi dice che è dotato di una forza così potente da stritolare fra le sue spire un vascello; chi invece essere gelatinoso come i polipi e senza consistenza; alcuni narrano di essere stati assaliti e altri di averlo invece veduto fuggire, appena s’accorse di essere stato scoperto. L’equipaggio di una nave danese affermò di averne tagliato a mezzo uno con un colpo di sperone e che le due parti perdettero tanto sangue da arrossare il mare per un tratto di mille metri quadrati.
– Bum! – esclamò il capitano. – Aveva una cantina nel corpo quel serpente?
– Non ne so più di voi, – rispose serio serio papà Catrame. – Quanto a me, non presto che una fede molto relativa a tutti questi racconti. Ora lasciatemi proseguire e non m’interrompete, se desiderate che me la sbrighi presto, poiché sento che la mia lingua s’ingrossa con questo faticoso esercizio, e se non mi affretto a dire, finirò di perderla.
– Navigavo da circa tre anni a bordo di un barco maltese, che faceva dei lunghi viaggi in America, nell’Estremo Oriente e anche nel grande Oceano Pacifico; un buon veliero, forse il migliore che io abbia montato in tanti anni di navigazione, e comandato dal più amabile capitano che abbia conosciuto.
– Durante questo lungo tempo nulla di straordinario era accaduto. Navigavamo come tranquilli passeggeri che vanno a diporto pel mondo, anziché come poveri marinai, e mangiando bene e bevendo meglio, senza mai aver incontrata una di quelle formidabili tempeste che fanno rizzare i capelli ai più coraggiosi e stringere il cuore anche a chi non è alle prime sue armi.
– Il capitano, che era un epulone e anche un mattacchione, offriva di quando in quando dei banchetti al suo equipaggio, o delle bicchierate memorabili che facevano dei grandi vuoti nella sua cantina. Quando poi il tempo era tranquillo e la notte illuminata dalla luna, non mancava mai d’improvvisare delle feste da ballo fra l’albero di trinchetto e quello di mezzana.
– Un giorno, mentre ci disponevamo a lasciare l’isola di Tonga, che fa parte, anzi è la principale, del gruppo omonimo, un capo indigeno, a cui avevamo fatto dei regali, ci mandò a bordo due granchi ladri.
– Cosa sono i granchi ladri? – chiedemmo tutti, eccettuato il capitano, il quale senza dubbio sapeva cos’erano.
– Ve lo dico subito in quattro parole, – rispose il mastro. – Sono dei granchi grossi assai, con delle morse così potenti che spaccano una noce di cocco colla massima facilità. Vivono in grande numero nelle isole dell’Oceano Pacifico, presso alle spiagge, onde essere più vicini agli alberi di cocco, sui tronchi dei quali si arrampicano per mangiare le frutta.
– Gli isolani sono ghiotti della loro carne e li cercano avidamente; se poi sia eccellente o no io lo ignoro, non avendone mai assaggiata.
– Ma, – disse il capitano, – cosa c’entrano qui i birgus latro (questo è il vero nome di quei granchi) col serpente di mare? Tu divaghi, papà Catrame.
– C’entrano per qualche cosa, signore, – rispose il mastro, – poiché furono quei due granchi a chiamare sul nostro veliero le disgrazie.
– E come mai?
– Io non lo so; il cuoco di bordo mi disse con tutta serietà che quelle bestie portano sfortuna e non si è ingannato, poiché dopo la loro comparsa cominciarono tempeste, disgrazie e facemmo l’incontro del serpente di mare.
– Oh! diamine! – esclamò il capitano, schiattando dalle risa.
– Lo vedrete fra poco, – rispose il mastro sempre serio e grave. – Passo sopra alle tempeste che ci assalirono poco dopo, ai due o tre marinai che si ruppero le braccia e le gambe sempre per colpa di quei granchi che ci avevano attirato addosso l’ira del re del mare (tal è almeno la mia convinzione, poiché si dice fra gl’isolani, che siano quei crostacei i suoi favoriti), e vengo al punto più interessante.
– Se ben mi ricordo, stavamo attraversando quel tratto di oceano che si estende fra le isole dell’arcipelago di Mendaña e la costa d’America, quando una sera, mentre stavamo danzando e bevendo in buona allegria, si verificò un fenomeno che non solamente ci sorprese, ma ci spaventò assai.
– Il nostro legno filava quattro o cinque nodi all’ora, spinto da buon vento largo, quando a poco a poco rallentò la corsa, finché rimase quasi immobile sul tranquillo mare!
– Dapprima credemmo che il vento fosse improvvisamente cessato, ma i mostravento(15) spiegati sulla cima degli alberi indicavano il contrario, e poi le vele erano sempre gonfie, segno evidente che tiravano ancora. Meravigliati d’un tal fatto, che per noi tutti era inesplicabile, ci precipitammo verso prua per vedere se qualche ostacolo si opponeva alla corsa del nostro legno: nulla appariva.
– Gettammo la sonda per vedere se vi era qualche banco, ma lo scandaglio non toccò fondo, quantunque fosse sceso a quattrocentocinquanta braccia. Guardammo a poppa, temendo che qualche mostro si fosse aggrappato al timone, e nulla si vide che potesse convalidare il nostro sospetto.
– Nessuno sapeva spiegare quello strano e sorprendente fenomeno. Alcuni dicevano che qualche grande polipo si era attaccato alla nostra chiglia e ci aveva fermati; altri dicevano che forse il mare era in quel punto così denso da impedirci di avanzare e che per conseguenza dovevamo virare di bordo; ma erano sciocchezze a cui nessuno prestava fede.
– Il nostro barco rimase quasi immobile per un buon quarto d’ora, poi tutto d’un tratto si mise a veleggiare colla primiera velocità. Però, allorché si mosse, vedemmo a poppa il mare gonfiarsi e ribollire, e un marinaio assicurò di aver veduto qualche cosa di nerastro agitarsi fra la spuma, come un braccio smisurato o un immenso cilindro.
– Ci aveva fermati qualche mostro marino di nuova specie, e non altro. Per quella sera però nulla potemmo sapere.
– Durante tutta la notte l’intero equipaggio vegliò sul ponte, giacché nessuno pensava a dormire, e parecchi uomini si tennero armati di ramponi e di carabine. Nulla accadde, fino verso le due del mattino. Allora, un gabbiere che si era arrampicato sulla crocetta dell’albero di trinchetto, asserì di aver veduto, appena un miglio sottovento, un cono ergersi dal mare, simile ad una tromba marina. Non ho potuto constatare il fatto coi miei occhi: ma non mi sembra tuttavia che potesse essere una tromba, giacché il vento era leggero, l’oceano tranquillo o quasi, e il cielo sgombro di ogni nube.
– Verso l’alba però vidi il mare sollevarsi sotto la poppa del nostro legno e intesi distintamente una specie di fischio, poco meno acuto di quello che ordinariamente emettono i serpenti.
– Questo nuovo fenomeno ci spaventò e anche il nostro capitano cominciò a impensierirsi, tanto più che si sospettava la presenza d’un mostro marino.
– Virammo di bordo cambiando rotta, colla speranza di fargli perdere le nostre tracce, ed infatti il nostro barco filò verso nord senza incidenti durante tutta la giornata. Già ci rallegravamo di essere scampati a quel misterioso pericolo, quando, due ore dopo calato il sole, ecco la nostra nave a poco a poco arrestarsi e poi oscillare abbastanza fortemente da bordo a tribordo.
– Il nostro stupore si cambiò in una vera paura da non potersi descrivere. Dal capitano all’ultimo mozzo erano tutti pallidi ed io tremavo più degli altri.
– Guardammo tutto intorno alla nostra nave, ma nulla appariva a fior d’acqua. Eppure il rollio continuava e tanto che credemmo di venire da un istante all’altro gettati in mare e subissati.
– L’oscurità accresceva la nostra paura: il cielo si era coperto e la luna e le stelle non proiettavano sulla nera superficie dell’oceano nessun chiarore che permettesse di distinguere alcuna cosa con precisione.
– Più tardi, la nostra attenzione venne attirata da un potente fischio che veniva dal largo. Corremmo tutti a prua stringendo le armi, credendoci assaliti dal misterioso mostro che ci seguiva con tanta ostinazione.
– Là, a sole due gomene da prua, un mostro enorme, che non si poteva ben distinguere in causa dell’oscurità, navigava in modo da tagliarci il passo, ruttando una specie di nebbia o di fumo.
– Si teneva quasi tutto sommerso; ma dietro alla sua testa che poteva essere lunga venti metri, vedevamo distendersi sul mare un corpo lungo lungo, serpeggiante, che si perdeva verso il Nord. Non so quanto misurasse tutto intero poiché, come dissi, la notte era oscura; ma io non esito ad affermare che superava un miglio.
– «Virate di bordo!» – tuonò il capitano con voce strozzata per l’emozione.
– Non so come, in meno di venti secondi la manovra fu eseguita e il nostro legno fuggi verso il Nord; ma percorse sei o sette gomene, si trovò dinanzi alla coda del mostro che fu tagliata nettamente per metà e con una facilità tale che nessuno di noi s’accorse del menomo urto!…
– Era di burro quel serpente? – chiese il nostro capitano, guardando con aria ironica mastro Catrame.
– Di burro!… Vi basti sapere che al mattino trovammo nella sentina un piede d’acqua entrata da due fori perfettamente regolari, del diametro di quindici o venti centimetri, aperti uno a babordo, un po’ sopra il paramezzale, e l’altro a poppa. Ditemi che specie di denti aveva quel serpente di burro.
– E siete andati a picco? – chiedemmo.
– No, – rispose papà Catrame. – Ci riuscì facile chiudere quei due fori e asciugare la stiva col mezzo delle pompe; ma tale fu lo spavento provato da quell’incontro, che parecchi marinai si ammalarono.
– Io sarò un credulone, ma dico che, se quei due granchi non fosse stati a bordo, chissà, il re degli abissi marini non ci avrebbe mandato addosso quel formidabile serpente, la cui esistenza molti mettono in dubbio.
Ciò detto, il vecchio scese dal barile e fece per andarsene; ma il capitano, che da qualche minuto era diventato pensieroso, lo fermò con un gesto.
– Una spiegazione? – chiese il vecchio, aggrottando la fronte.
– Forse.
– Non credereste a ciò che vi ho narrato?
– Non credo al tuo serpente, il quale non esiste che nel cervello de gli ignoranti.
Mastro Catrame alzò il suo curvo dorso, puntò le mani sui fianchi guardò il suo eterno contraddittore con un’aria di sfida.
– Che fossimo tutti ciechi! – esclamò. – Spiegate voi adunque questo fenomeno!
– Sì, – disse il capitano, come parlando fra se stesso, – deve essere così… ne sono certo… Ebbene, – riprese poi ad alta voce e sostenendo serenamente lo sguardo fosco del vecchio, – ti spiegherò io tutto.
– Non posso assicurare per quale motivo la vostra nave sia stata fermata e scrollata; ma io ritengo che si fosse aggrappato alla vostra chiglia qualche mostro fornito di braccia potenti, un polipo gigante, per esempio, oppure un cefalopodo. Questi polipi hanno dei tentacoli che raggiungono e talvolta sorpassano una lunghezza di dieci metri, sono dotati di una forza straordinaria e possono far oscillare una nave anche grossa. Il caso non sarebbe nuovo.
– Ammettiamolo, – rispose il mastro.
– In quanto al serpente marino vi siete tutti ingannati, cominciando dal tuo amabile capitano. Sono convintissimo che voi abbiate incontrato nient’altro che una pacifica balena, occupata a pranzare fra un banco di alghe. Le dimensioni del capo del preteso serpente, che era invece l’intero corpo del cetaceo, le nubi di vapore, che lanciava dagli sfiatatoi, e il fischio acuto bastano per dimostrare che io non mi inganno.
– La coda del serpente non era altro che un lungo banco di alghe, eccellente pastura delle balene; se così non fosse, la vostra nave non avrebbe tagliato l’appendice del mostro smisurato. Hai veduto tu quella coda contorcersi o sollevare ondate quando la vostra nave la investi?… Dimmelo francamente, papà Catrame.
– No, – rispose il mastro, che si grattava furiosamente la testa, – ma quei due buchi?…
– Quei due buchi!… Ecco il punto oscuro. Un polipo non può averli fatti, un cetaceo nemmeno, un pesce-spada no, quantunque sovente pianti il suo corno nella carena delle navi, ma senza riuscire ad attraversarla e… Ah!… ah!… Questa è bella!…
– Ridete! – esclamò il mastro.
– Vi è da ridere, papà Catrame, e come!… – rispose il capitano. Dimmi: li avevate mangiati i due granchi ladri?…
– I due granchi!… – mormorò il mastro, che parve colpito. – Ma no, perbacco!… Erano chiusi in una cassa e…
– Cosa vuoi dire?
– Che quando asciugammo la sentina, li trovammo nascosti colà. I furboni avevano rotto la cassa; eppure era grossa e solida.
– Sappi allora, papà Catrame, che il vostro legno era stato sabordato(16) dai due fuggiaschi. Avevano sete, e colle loro robuste morse, che fendono le durissime noci di cocco, hanno praticato quei due buchi per bere. Ah!… vecchio mio, che granchio hai preso!… Va’ a dormire e per domani sera prepara qualche cosa di meglio.
Il mastro non fiatava più: guardava il capitano come trasognato, con certi occhi che parevano quelli d’un pazzo.
Quando si alzò, lo udimmo mormorare:
– Decisamente colle mie novelle non farò mai fortuna!…
Quella notte, non so per qual capriccio, il vecchio non discese nella sua cala e dormì sul ponte, fra due velacci e un rotolo di gomene.
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