La nave-feretro sul mare ardente

Le dure smentite del nostro capitano, il quale per altro non mirava che a dissipare la nebbia d’antichi pregiudizi a pro del nostro equipaggio, al pari di tutti gli altri fuor di misura ignorante e credulone, dovevano aver prodotto un profondo effetto sul povero condannato.

Infatti l’indomani papà Catrame non comparve sul ponte, e quando fu sera non lasciò la cala. Lo si mandò a chiamare dieci volte di seguito, ma fu inflessibile. All’undicesima tirò dietro al camerotto tutte e due le scarpe e alla dodicesima scagliò alle gambe d’un timoniere, che era sceso per persuaderlo a salire, tutta la sua batteria di bottiglie, vuote, intendiamoci.

Il capitano lo lasciò fare, gli mandò anzi due fiaschi del vino suo più gradito, che il vecchio orso accolse con un brontolio di contentezza e che vuotò subito, poiché mezz’ora dopo lo udimmo russare con tal fracasso da destare l’eco nella stiva.

Il secondo giorno però, o, meglio la seconda sera, il mastro, riconoscente alla cortesia del nostro allegro capitano, salì in coperta. Pareva contento: aveva un sorrisetto misterioso sulle labbra e lanciava sul capitano degli sguardi maliziosi. Che in quelle ventiquattro ore di riposo avesse scavato, nei suoi vecchi ricordi, qualche fatto da imbarazzare il suo eterno contraddittore? Io lo sospettai vedendolo così di buon umore, mentre tutti credevano che fosse imbronciato.

Quando ci vide attorno al suo barile, il suo sorriso misterioso divenne più marcato e nei suoi occhietti grigi brillò un lampo.

– Restano ancora due sere per espiare la mia pena, – cominciò egli. – Ho narrato dei fatti a me succeduti e mi avete riso sulla faccia come se vi narrassi delle frottole inventate nell’oscurità della cala; ho citato nomi ed autori e voi avete voluto sfatarli; ho creduto di divertirvi e invece mi avete trattato come un buffone di qualche tirannello africano o peggio. Ritorno quindi alle storie lugubri e paurose: quelle almeno sono certo che non le spiegherete, e chi non vuole udirmi, vada a dormire. M’avete capito?

– Se papà Catrame spera di vederci andare a dormire per risparmiare il resto della sua pena, s’inganna, – disse il capitano. – Io rimango e aspetto l’undicesima novella.

– Anche noi! – esclamarono in coro i marinai, che non avrebbero lasciati i loro posti nemmeno per dieci boccali del miglior vino.

Papà Catrame fece un gesto dispettoso, ma dovette rassegnarsi, poiché nessuno si moveva. Storie allegre o tristi, doveva narrarle tutte.

– Sta bene, – diss’egli coi denti stretti; – ma forse vi pentirete. La novella di stasera s’intitola: «La nave-feretro sul mare ardente».

– Che storia è mai questa! – esclamò il capitano. – Tu vuoi proprio spaventare i mozzi.

– Tanto meglio, – rispose il mastro ruvidamente. – A chi non accomoda il titolo, vada a dormire.

– Con tuo permesso rimarremo tutti qui, vecchio brontolone.

Papà Catrame scrollò le spalle, si raccolse per alcuni istanti, poi cominciò:

– Vi narrerò un’avventura assai bizzarra, forse la più strana che mi sia toccata in tanti anni di navigazione, e che non fui capace di spiegare mai, quantunque mi sia torturato il cervello non so quante volte. Voglio vedere se il nostro capitano è capace di fare un po’ di luce su questo tenebroso fatto.

– Speriamolo, papà mio, – disse il capitano. – Bada però che sia una storia vera.

– È toccata a me, e questo può bastarvi per credere alla esattezza dell’avventura. Ditemi innanzi tutto: avete mai udito parlare della nave-feretro? Si dice, e non da ora, ma da molti, moltissimi anni, che di quando in quando si incontra un vascello tutto nero che veleggia da solo, senza aver bisogno d’un equipaggio che lo manovri e lo guidi, che porta con sé un carico completo di feretri.

– Le leggende di molti popoli non solo europei ma anche di altri continenti, dicono che quel vascello fantasma racchiude le salme di marinai morti durante le tempeste, o quelle dei più valenti guerrieri spenti combattendo sul mare per sante cause, o i cadaveri di quegli audaci scorrazzatori del mare che si chiamarono normanni, tutti resti di persone affidate all’oceano da secoli e secoli e riunite sulla nera nave. Cosa ci sia di vero in tutto ciò, io lo ignoro; ma che la nave-feretro esista è vero, poiché io l’ho incontrata e l’ho veduta coi miei occhi.

– Tu! – esclamò il capitano con tono incredulo.

– Io, signore, – rispose il mastro con voce solenne, – io!…

– Udiamo adunque questa bizzarra avventura, – riprese il capitano – Se è vera, non so come potrò spiegarla.

– Non la spiegherete, signore: ve l’assicuro, – rispose il mastro.

Mi ero arruolato su di un brigantino messicano che faceva il traffico con la Cina ed il Giappone, attraversando tre o quattro volte all’anno l’Oceano Pacifico settentrionale. Avevamo lasciato il porto di Callao sul finire della primavera, se ben ricordo, diretti al Giappone, dove contavamo di fare un grosso carico di seta per le bellezze americane.

Il buon vento, che in quella stagione spira quasi sempre in favore delle navi che vanno dall’oriente verso l’occidente, in quindici giorni ci aveva spinto fino al 220° parallelo senza che alcun avvenimento turbasse la calma che regnava a bordo, quando un giorno, pochi minuti prima che calasse il sole, facemmo una strana scoperta.

– Mentre stavamo terminando la nostra cena, un gabbiere che si trovava sulla coffa di maestra occupato a fare un legaccio a un boscello(17), ci segnalò un bastimento che navigava parallelamente a noi, a una distanza di quattro miglia.

– Non era una cosa straordinaria di certo, quantunque in quella porzione d’oceano sia abbastanza raro un tale incontro. Essendosi però il giorno precedente manifestato un guasto nella nostra bussola, il capitano volle approfittare di quella occasione per chiedere alla nave segnalata la giusta rotta, e diresse il brigantino verso il Nord.

– Mezz’ora dopo, noi eravamo ad un miglio dal vascello, sicché potemmo osservarlo a nostro agio. La sua andatura, la sua immersione e la disposizione delle sue vele attrassero la nostra attenzione.

– Era un grande veliero tutto dipinto in nero, coi suoi tre alberi carichi di tela, ma coi pennoni orientati gli uni sottovento e gli altri sopravvento, senza regola, ed era così immerso che l’acqua giungeva fino agli ombrinali(18). Ma, cosa ancora più sorprendente, non portava alcuna bandiera, e né sul ponte di comando, né sul cassero di poppa, né sul castello di prua, né in coperta si vedeva alcun marinaio.

– Il nostro capitano, ritenendo che gli uomini fossero sdraiati dietro alle murate di babordo o dietro alle imbarcazioni, fece spiegare le bandiere dei segnali, pregando quell’equipaggio invisibile di porsi in panna; ma nessuno apparve!

– Converrete che la cosa era strana. O l’equipaggio si era ubriacato e dormiva della grossa, o quella nave era stata abbandonata per qualche motivo. Eppure senza bisogno di braccia continuava a navigare, filando più di noi. Sparammo un colpo di spingarda, ma non ottenemmo miglior frutto: nessun uomo comparve, nessuno ci rispose.

– Essendo calata in quel frattempo la notte, la nave misteriosa scomparve nelle tenebre; però, qualche ora dopo, e da lontano, scoprimmo parecchie fiammelle che brillavano distintamente fra la profonda oscurità.

– Da che provenivano? Non riuscimmo a saperlo; non essendovi però alcuna terra in vista, arguimmo che quei fuochi dovevano brillare sul vascello poco prima segnalato.

– Lascio immaginare a voi a quante chiacchiere diede luogo quel misterioso incontro. Alcuni dicevano che forse quella nave era montata da pirati, i quali dovevano aver avuto paura di noi; altri che era il vascello fantasma dell’olandese maledetto; altri ancora asserivano invece, e con tutta serietà, che doveva essere la nave-feretro, anzi aggiungevano che appunto in quella porzione dell’Oceano Pacifico era stata incontrata pochi anni prima da un capitano di Acapulco.

– Tutta la notte vegliammo attentamente in coperta, temendo che il triste legno da un istante all’altro ci investisse o ci facesse qualche brutto gioco; ma nulla apparve sulla fosca linea dell’orizzonte. Soltanto un gabbiere assicurò di aver veduto ancora, fra le undici e la mezzanotte, brillare quelle fiammelle che ci avevano tanto spaventati.

– Finalmente l’alba, così ansiosamente attesa, spuntò, e l’oceano apparve completamente libero: la nave incontrata la sera precedente era scomparsa!…

– Trascorsero tre giorni, durante i quali essa più non riapparve, benché l’equipaggio intero vegliasse attentamente e per turno, ed un uomo si tenesse sulla crocetta di maestra, munito d’un potente cannocchiale.

– Cominciavamo già a rassicurarci, quando al tramonto del quarto giorno il nostro timoniere gridò:

– «Nave sottovento!…»

– Salimmo tutti in coperta e distinguemmo infatti, verso il Nord, un tre-alberi di dimensioni non comuni; ma la distanza era tale da non permetterci di osservarlo minutamente.

– Un gabbiere si issò sulla crocetta e puntò un cannocchiale in quella direzione.

– «È la nave-feretro!» – esclamò.

– «Mettete la prua al Nord e si spieghino i coltellacci e gli scopamari(19)!», – comandò il nostro capitano. – «Voglio vedere chiaro in questa misteriosa avventura».

– Quantunque fossimo tutti impressionati, anzi, se devo dire esattamente la verità, vivamente spaventati, temendo quell’incontro, obbedimmo, e il nostro brigantino filò come una rondine marina verso il Nord, alla caccia del vascello fantasma.

– La nostra velocità cresceva di minuto in minuto; ma anche quella del vascello inseguito, che forse era meglio costruito e che portava più vele di noi, era rapida, poiché la distanza non scemava che lentamente.

– Anche quella volta giungemmo a un miglio di distanza; indi le tenebre calarono e non riuscimmo più a distinguere nulla. Però avevamo avuto tempo di osservare che il ponte della nave era sempre deserto, che la sua immersione si manteneva come prima, e che i suoi pennoni non avevano subito alcun cambiamento, quantunque il vento avesse preso diversa direzione.

– Cercammo tutta la notte, ora dirigendoci verso il Nord, ora verso l’Ovest, ma senza risultato; nemmeno le fiamme apparvero, cosicché, non potendo proseguire in modo alcuno, fummo costretti ad abbandonare le nostre ricerche con grande rincrescimento del capitano, che contava di fare una grossa preda, giacché quella nave sembrava abbandonata dal suo equipaggio.

– Noi però eravamo convinti che fosse la nave-feretro ed infatti non dovevamo tardare ad averne la prova

– La sesta sera nulla apparve nel momento in cui il sole tramontava; ma più tardi accadde un avvenimento straordinario, che spaventò tutti, eccetto il capitano.

– Erano le undici. Il nostro brigantino navigava colla velocità ridotta, essendo il vento alquanto forte, e colla prua sempre all’Ovest, quando scorgemmo tutto ad un tratto, ad una grande distanza, un vivo chiarore.

– Si sarebbe detto che il mare era in fiamme, o che sotto le onde splendeva un altro sole, o che avvampava un vulcano. Si vedevano guizzare in tutte le direzioni lingue rosse, azzurre o verdastre. colle selvagge contrazioni dei serpenti; balzavano per ogni dove fasci di scintille ogni volta che le onde fosforescenti s’urtavano, e sotto a quella specie di distesa di bronzo liquefatto, si distinguevano dei ribollimenti strani che parevano prodotti da legioni di mostri contorcentisi.

– Cos’era? Il capitano diceva che era una fosforescenza marina d’un chiarore ammirabile, prodotta da ammassi enormi di certi pesci o da miriadi di uova; ma nessuno di noi gli credeva, quantunque non ignorassimo che anche gli scienziati hanno dato tale spiegazione di siffatto fenomeno.

– Ci dirigemmo a quella volta e, giunti sull’estremo lembo di quel mare ardente o fosforescente che fosse, vedemmo ferma, proprio nel mezzo, una massa nera che spiccava nettamente su quel fondo scintillante. La riconoscemmo di colpo.

– «La nave-feretro!» – gridammo tutti.

– «Finalmente!» – esclamò il nostro capitano. – «Avanti!»

– Invece di ubbidire, il timoniere lasciò la ribolla e i gabbieri abbandonarono i bracci delle manovre, dichiarando formalmente che nessuno lo avrebbe seguito. Perbacco! Non avevamo alcuna intenzione di andarci ad impacciare col vascello dei morti! E fummo ben contenti di rimanere a bordo.

– Vedendoci risoluti e decisi a ribellarci se avesse insistito, il nostro capitano fece calare una scialuppa in mare e discese solo, dicendoci:

– «Aspettatemi qui adunque: la preda sarà tutta mia».

– Afferrò i remi e con un coraggio ammirabile entrò nel mare fosforescente, dirigendosi verso la nave misteriosa. Arrancava con sovrumana energia, facendo volare sotto i colpi di remo sprazzi di scintille, e teneva gli occhi costantemente fissi sul tre-alberi, che era perfettamente immobile, quantunque avesse sempre le vele sciolte e il vento soffiasse ancora.

– Di mano in mano che la scialuppa si allontanava, invece di sembrare più piccola, sia che un fenomeno d’ottica ovvero il terrore ci falsasse la vista, pareva assumere proporzioni gigantesche e che il nostro capitano diventasse sempre più grande.

– Finalmente lo vedemmo raggiungere la nave, deporre i remi e balzare sopra le murate che erano a fior d’acqua.

– Quasi nel medesimo istante, come se quello fosse stato un segnale, la luce intensa che si stendeva sotto le onde si spense bruscamente, e tutto divenne oscuro come il fondo di un barile di catrame!…

– Il nostro terrore accrebbe smisuratamente quando, in mezzo al profondo silenzio che regnava fra le tenebre, ci giunse agli orecchi un grido acuto che veniva dal largo, come un grido d’orrore.

– L’aveva emesso il nostro capitano, o qualche altro essere umano? Attendemmo col cuore stretto dall’angoscia, ma non udimmo più nulla, né vedemmo ritornare la scialuppa.

– Passarono due, tre, quattro ore, ed il nostro comandante non riapparve. Il terrore cresceva a bordo di momento in momento, e nessuno ardiva slanciarsi verso la nave misteriosa: eravamo istupiditi dallo spavento.

– Verso le quattro udimmo improvvisamente a prua un urto. Facendoci coraggio uno coll’altro, salimmo sul castello e scorgemmo la scialuppa del capitano, che le onde o qualche corrente marina o il flusso avevano ricondotta verso di noi. Gettammo una corda munita d’un uncino e la rimorchiammo fin sotto la scala. Solo allora ci accorgemmo che dentro vi giaceva il nostro capitano!

– Lo portammo a bordo: non dava quasi più segno di vita, era bianco come un cencio lavato, bagnato di freddo sudore e i capelli gli erano incanutiti tutti.

– Abbandonammo subito quei paraggi funesti, temendo che una grave sciagura cogliesse anche noi.

– Al nostro povero capitano vennero prodigate le più affettuose cure, ma non rinvenne che il giorno seguente. Le prime parole che pronunciò furono queste:

– «I feretri!… Quanti feretri!…»

– Poi fu subito assalito da un delirio furioso, durante il quale non faceva altro che parlare di morti e di sepolture. Dai suoi discorsi riuscimmo a capire che quella nave era piena di casse contenenti centinaia di morti.

– Non vi era più dubbio: avevamo incontrato la nave-feretro!…

– Il delirio del nostro capitano non cessò piu; il disgraziato era diventato pazzo furioso. Morì tre giorni dopo il nostro arrivo al Giappone e le sue ultime parole furono:

– «I feretri!… I feretri!… Oh! le orribili code!…»

– Ora quel coraggioso capitano, vittima della propria audacia, riposa nel piccolo cimitero europeo di Yokohama. Pace alla sua salma!…

Papà Catrame tacque per alcuni istanti, poi, guardando il nostro comandante, gli chiese a bruciapelo:

– Cosa ne dite voi?…

Il capitano invece di rispondere si alzò, prese papà Catrame per un braccio, lo fece sedere fra l’uditorio e, accomodatosi sul barile, reclamò con un gesto il silenzio di tutti.

Noi, sorpresi per quella novità e curiosi di sapere cosa stava per succedere, aprimmo ben bene gli occhi, tenendoli fissi su di lui. Anche il vecchio mastro era sorpreso, ed era diventato un po’ inquieto.

– Dovete sapere, miei lupicini, – cominciò il nostro capitano, – che esiste un popolo industriosissimo, d’una frugalità senza pari, di un’avarizia incredibile, il quale ha una tendenza assai accentuata per l’emigrazione.

– La terra che egli occupa è d’una fertilità prodigiosa, le sue ricchezze minerali sono incredibili, l’industria occupa milioni di braccia; ma non basta per mantenere tutto quel popolo, che è il più numeroso dell’Asia, poiché la sua cifra ascende a circa quattrocentocinquanta milioni.

– Adunque una parte di quel popolo è costretta ad emigrare, sebbene la sua emigrazione non sia di lunga durata. Lascia la patria momentaneamente, invade le contrade più ricche del globo, si adatta a tutti i lavori dai più lucrosi a quelli più meschini, mangia quel tanto che basta per tenersi in piedi, accumula soldo su soldo, e un bel giorno ritorna all’ombra delle sue pagode a scaglie di ramarro, dei suoi tetti di porcellana, delle sue splendide torri a nove piani con le più ardite arcate.

– Muoiono taluni di quegli emigrati in terra straniera? Non importa: la loro salma riposerà egualmente sulla terra della patria, e i bonzi(20) del suo villaggio o della città andranno egualmente a pregare sulla sua fossa.

– Questo popolo, voi l’avrete indovinato già, è il cinese.

– Alcuni anni or sono, i figli del Celeste Impero avevano fissato gli sguardi sulle coste americane bagnate dalle onde dell’Oceano Pacifico. La notizia della favolosa scoperta dell’oro nella nuova California aveva attraversato l’oceano, ed ecco salpare a migliaia e migliaia i codati figli del Celeste Impero, avidi di approdare anch’essi a quella preziosa regione.

– Bastarono pochi anni, anzi pochi mesi si può dire, perché tutte le coste fossero infestate da quegli emigrati. Il piccolo commercio cadde in gran parte nelle loro mani, invasero tutti i posti disponibili, cacciarono i braccianti e gli artieri, facendo loro una guerra accanita a colpi di ribasso sulle mercedi, e le loro colonie in breve divennero numerose e fiorenti.

– Ma il clima nuovo, le privazioni che s’imponevano per accumulare rapidamente grandi ricchezze, le fatiche od altro, facevano dei grandi vuoti fra quella popolazione di emigrati, e moltissimi non ritornarono più in patria a godere i risparmi e a riposare sul suolo natio. E il morire all’estero rincresceva assai ai gialli figli del Celeste Impero.

– Gli intraprendenti americani fiutarono un buon affare, ed una società si costituì in breve, offrendo agli emigrati cinesi di trasportare in patria le salme dei loro compatrioti.

– Ecco comparire adunque le navi-feretro, lugubri vascelli che salpavano con un carico completo di morti.

– Con un processo speciale si impediva al morto di infracidire subito, lo si rinchiudeva in un feretro, lo si portava a bordo e dopo cinque o sei settimane lo si sbarcava nei porti del Celeste Impero, e i parenti lo tumulavano nella terra natia.

– Queste navi esistono ancora, salpano ogni mese da San Francisco di California o da Monterey, e i soci della compagnia fanno splendidi guadagni alle spalle dei poveri morti. Cosa ne penserete ora dell’incontro fatto da mastro Catrame?

– Che era una nave piena di cinesi morti portati in patria, – risposero i marinai, ridendo come pazzi, mentre il viso di papà Catrame si allungava a vista d’occhio.

– È proprio così, vecchio mastro, – disse il capitano. – La nave dei morti, che hai veduto, non era altro che una nave-feretro americana che trasportava verso la Cina un carico di defunti. Ignoro i motivi che avevano costretto l’equipaggio americano ad abbandonarla; ma forse si era aperta improvvisamente una falla, che poi si rinchiuse forse per qualche feretro incastratosi nell’apertura o per altra cagione.

– Avendo ancora le vele sciolte, poté continuare a navigare, finché trovò un ostacolo, forse un banco sottomarino che l’arrestò. Se il tuo capitano non avesse ignorato l’esistenza delle navi-feretro della compagnia americana, non sarebbe diventato pazzo per lo spavento; e forse a quest’ora sarebbe ancora vivo ed occupato a vuotare un buon fiasco di mezcal(21) in qualche ottima posada(22) di Acapulco…

Si alzò e, battendo una mano sulle spalle del mastro che era diventato pensieroso:

– Hai compreso? – disse: – bada, papà Catrame, di non sognare la nave-feretro ed i suoi morti.

Ci allontanammo, chi per montare il quarto di guardia e chi pel recarsi a dormire; ma il mastro rimase seduto al suo posto, immerso in profondi pensieri.

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