S’era rimesso a nevicare, ma a fiocchi radi che cadevano dal cielo come farfalle sperdute e tramortite, o volavano qua e là, travolti dalle raffiche che tratto tratto soffiavano impetuosamente.
I nostri amici però non se ne davano per inteso. Erano uomini fusi in una materia che doveva avere le qualità del ferro e perciò non sentivano, o, per lo meno, non soffrivano né freddo né fame, né sete né stanchezza.
Quanto ai Mandani, c’erano nati in quel clima e, anche mezzi ignudi, non ne pativano i rigori.
Si narra anzi che una volta, durante la dominazione francese nel Canada, un governatore giunto allora allora dalla Francia, per conciliarsi subito le simpatie dei capi delle tribù indiane canadesi, diede una festa assai bella in un castello fatto di ghiaccio e invitò tutti i sackem assieme agli ufficiali, agl’impiegati d’amministrazione, e alle signore là stabilite.
Tutti gli europei intervennero alla festa ben bene impellicciati, poiché era un inverno freddissimo; e il governatore stesso si era acconciato in modo che pareva proprio uno di quegli orsi che Testa di Pietra aveva affascinati col suo sguardo incantatore.
I sackem invece vi andarono con i loro ornamenti solenni e decorativi, ma assai poco riparatori del freddo. Vedendo molti punti del corpo dei capi tribù canadesi scoperti. il governatore se ne meravigliò e chiese ad un sackem:
«Ma come!… Voi non sentite freddo, ché avete la persona seminuda?»
Il capo tribù sorrise e a sua volta domandò:
«E voi perché tenete il viso scoperto?»
«Perché esso non soffre.»
«Ebbene,» soggiunse il sackem, «noi siamo tutto viso!»
La strada che Testa di Pietra e i suoi compagni dovevano percorrere per arrivare all’accampamento non era molto agevole, tuttavia essi, lavorando di gambe meglio che potevano, giunsero al campo indiano assai presto.
Trovarono le squaw, i ragazzi e i guerrieri rimasti a guardia, in preda a un grande orgasmo. Tutti erano in moto.
Gli uomini brandivano le armi e s’affollavano attorno ad alcuni guerrieri che sembravano giunti in quel momento dall’interno del territorio, e li interrogavano vociando.
Ma all’apparire di Macchia di Sangue, che correva innanzi a tutti e dei «visi pallidi», come essi chiamavano gli europei, ognuno si volse ad essi, salutandoli con manifestazioni di gioia.
Jor comprese quanto doveva accadere e disse al vecchio mastro della Tuonante:
«Appena giunto all’accampamento e prima di mettermi alla vostra ricerca, io ho avvertito i Mandani del pericolo che essi correvano d’essere assaliti dagli Irochesi, e li ho consigliati di spedire alcuni esploratori ad osservare i dintorni e a spiare l’avanzarsi del nemico. Essi hanno senza dubbio messo in pratica il mio suggerimento, e gli esploratori devono già essere ritornati con delle notizie.»
«Bisogna interrogarli,» disse Testa di Pietra, caricando per la decima volta la sua veneranda pipa, pigiando il tabacco più del solito.
«Ecco là Macchia di Sangue che lo sta facendo,» soggiunse il canadese.
«Sapremo dunque che cosa sia stata la fucilata udita poco fa.»
«Forse un segnale.»
«Macchia di Sangue si avvicina.»
«Egli viene a riferirci quanto ha saputo. È il suo dovere. Non sono forse io il sackem dei Mandani, vale a dire il capo supremo?»
E così dicendo Testa di Pietra gonfiò il petto come un tacchino e arrotondò in modo le guance rugose e arse dal sole e dai venti marini, che uno sbuffo violento di fumo gli si sprigionò dalle labbra investendo in volto il segretario del marchese che stava vicino al mastro.
Il povero diavolo si sentì entrare in gola e negli occhi il fumo acre di quella famosa pipa dove tante generazioni di teste dure della Bretagna avevano fumato e cominciò a tossire, a stropicciarsi gli occhi lacrimosi, a contorcersi in maniera così buffa che Jor, Piccolo Flocco e lo stesso Hulrik, al quale la scomparsa del fratello causava una viva mestizia, non poterono trattenersi dal ridere di cuore.
«Per la punta del campanile di Batz!…» gridò Testa di Pietra che non pensava a simili effetti della sua venerabile pipa. «Cosa vi piglia ora, che mi sembrate tanti gabbieri in porto, un’ora dopo il ritiro della paga?»
Ma subito notò il contegno del segretario del marchese, illuminato dal rosso riverbero di un bel fuoco acceso dinanzi alla capanna principale, ne capì la causa e, togliendosi la pipa di bocca, la batté, ridendo, sul palmo della mano sinistra.
«Ah, briccona,» disse scotendo il capo, «tu non sei fatta per certi palati troppo delicati. Ad essi fa male anche un pochino del tuo fumo. Orsù, va a dormire, e lascia ch’io ascolti bene ciò che viene a dirci il nostro bravo sottocapo Macchia di Sangue.»
Il bravo guerriero mandano s’avanzava infatti con l’aria piena di gravità che sogliono prendere gl’indiani nelle grandi circostanze.
«Il prode sackem bianco.» disse egli fermandosi di fronte a Testa di Pietra, «ascolti le parole del suo fratello minore Macchia di Sangue. Egli ha vinto l’Orso delle Caverne ch’era il più valoroso dei guerrieri Mandani, e ciò significa che il Grande Spirito è con lui e lo assiste nei combattimenti. Ora un grave pericolo minaccia la sua tribù. Gli Irochesi si sono messi sul sentiero della guerra contro i Mandani e hanno forze immani. Il loro capo è Caribou Bianco e il loro sottocapo è Serpente Lento. l’uomo più astuto di tutte le cinque nazioni: e già i guerrieri che essi conducono circondano il nostro accampamento, restando invisibili, inoltrandosi a poco a poco, strisciando sulla neve, tra le piante. I nostri esploratori hanno avvertita la loro presenza e l’hanno segnalata. Non udì forse il prode sackem bianco un colpo di carabina?»
«Per tutti i campanili della Bretagna!» esclamò il vecchio mastro. «Non sono ancora diventato sordo.»
«Come?» chiese Macchia di Sangue, poco familiare all’oratoria del nostro bretone.
«Voglio dire al mio fratello rosso che ho udito magnificamente lo sparo. Auf!… Tra questi indiani mal tinti che parlano come tanti predicatori, e in terza persona, Hulrik che odia le «v» e le «b», i canadesi, i fiamminghi, gli americani, gl’inglesi e il diavolo a quattro… io finirò col fare sganasciare dal ridere le comari del borgo di Batz, quando mi ritirerò in pensione, se ne avrò il tempo. E dunque, che altro voleva dire al suo sackem bianco il prode Macchia di Sangue?»
«Che quel colpo era stato sparato da Zampa di Bufalo,» affermò con sicurezza il sottocapo.
«Non conosco questo signore.»
«Ah!…»
«È forse un guerriero irochese?»
«No, mandano.»
«Allora dei nostri? Benissimo.»
«Zampa di Bufalo è valoroso: la sua cintura è adorna di molte capigliature tolte ai nemici uccisi in guerra.»
«Ne ho tanto piacere: amo che i miei guerrieri siano famosi. Ma perché ha fatto fuoco?»
«Per uccidere un nemico.»
«E v’è riuscito?»
«Sì.»
«Alla buon’ora… Avrebbe forse spedito a compare Belzebù quel furfante di Davis che ha la pelle dura come quella di un bisonte? In tal caso ditemelo, prode Macchia di Sangue, perché nominerei subito Zampa di Bufalo ammiraglio della flotta mandana.»
Evidentemente il sottocapo si sentiva un po’ sconcertato dalle parole del mastro.
Dopo una breve esitazione perciò riprese:
«Zampa di Bufalo ha ucciso un Irochese… eppure nessuno è comparso a vendicarne la morte, ad inseguire l’uccisore, sebbene i nemici fossero nascosti intorno.»
«Bene, vuol dire che avranno avuto paura a mostrarsi.»
Macchia di Sangue scosse il capo.
«No,» soggiunse egli, «vi è sotto l’astuzia di Caribou Bianco, o di Serpente Lento. Gli Irochesi vogliono prenderci di sorpresa, ingannandoci, facendoci credere che nessun serio pericolo ci minaccia.»
«Può darsi.»
«I guerrieri mandani attendono ora gli ordini del loro sackem.»
«Eccoli qua, pochi ma buoni… Tutti sul ponte… cioè al posto di combattimento con le armi pronte. Appena il nemico è a tiro: fuoco di bordata, con tutti i pezzi… voglio dire con le carabine chi le ha, con gli archi e le frecce gli altri. Ma soprattutto ciascuno si tenga pronto a montare all’abbordaggio, al momento opportuno e dietro il mio comando. Hugh… ho detto!…»
Piccolo Flocco si reggeva la pancia per la convulsione di risa, ond’era preso al veder la faccia di Macchia di Sangue che attestava, con la fissità interrogativa dello sguardo, l’immobilità delle labbra aperte, lo stupore doloroso di chi non ha capito un discorso importante.
Jor, che aveva ascoltato sorridendo il colloquio, intervenne per spiegare al sottocapo quanto Testa di Pietra aveva voluto dire.
Macchia di Sangue lanciò allora un grido gutturale, fece un gran salto e raggiunse i guerrieri mandani, ai quali si mise a distribuire ordini.
«Mastro,» disse Piccolo Flocco, appena i nostri amici si videro un po’ isolati, «non ti sembra che sarebbe opportuno mettere qualcosa sotto i denti?»
«Star puona idea quella del nostro gappiere,» s’affrettò a soggiungere l’assiano che s’andava smascellando per gli sbadigli. «Stomaco fuoto indepolir forze e ciò essere dannoso in pattaglia.»
«Hulrik parla assennatamente,» intervenne il canadese. «Vi consiglio anch’io. amici miei, di rinforzarvi con un po’ di cibarie, ora che questa tregua ce ne dà il tempo; non so se fra poco lo avremo più.»
«Corpo d’un campanile!…» esclamò Testa di Pietra. «Sono anch’io di umor nero e credo che dipenda dal troppo digiuno. Ma che cosa mangeremo?»
«Penso che non ci sarà difficile trovare qualche prosciutto d’orso,» rispose Jor, «dei filetti d’alce affumicati, o un paio di cosciotti di opossum.»
«Che roba è?»
«L’opossum è un mammifero marsupiale, grosso non più di un gatto domestico. Le mie cognizioni zoologiche sono molto limitate, ma ho inteso dire, una volta, da un missionario francese, ch’esso appartiene alla famiglia dei didelfi o sarighe. È comunque in queste regioni e in tutta l’America settentrionale.»
«Ed è buono?»
«Non è cattivo.»
«Meglio dunque i salsicciotti di mastro Taverna.»
«In mancanza di essi ci accontenteremo del sariga.»
«Tanto più che abbiamo ancora da trovarli.»
«Mettiamoci dunque alla ricerca delle vettovaglie.»
Come i lettori ben comprendono, la tribù dei Mandani, pur contando secondo l’uso indiano sui proventi della caccia e della pesca, la quale era allora assai proficua, specialmente nei fiumi ricchi di salmoni fino al punto da rendere questo pesce, per noi prelibato, un cibo spregevole quasi, non si era posta in viaggio attraverso le selve nevose del Canada senza una riserva di viveri. Ragione per cui, quando Testa di Pietra e i suoi compagni entrarono nella capanna di scorza e chiesero da mangiare, si videro le tredici mogli del sackem precipitarsi tutte insieme alla ricerca delle vettovaglie, e ritornare poco dopo con tutto l’occorrente per saziare l’appetito più formidabile.
I nostri amici fecero onore a quei cibi, malgrado che Hulrik assicurasse che essi non valevano punto i salsicciotti finiti il giorno prima, e divorarono quasi tutto avidamente, lasciando ben poco alle donne, che si contesero a colpi d’unghia i rimasugli del rapido pasto.
«Ed ora, aspettiamo che i signori Irochesi si mostrino una buona volta,» disse Testa di Pietra accendendo la pipa. «La loro è una vicinanza poco piacevole ed è meglio finirla subito. O scambiare una pipata o scambiare dei colpi di carabina, per me fa lo stesso. Che ne pensate, amici?»
«Non dovremo aspettare troppo, siate certo,» rispose Jor. «Eh, eh… sembra che mi abbiano udito…»
Infatti in quel momento si levò nella notte silenziosa, turbata solo dalle raffiche gelate e dagli echi del lago, un formidabile clamore, in cui si mischiavano urli e schioppettate.
«Fulmini!… La battaglia incomincia,» urlò Testa di Pietra balzando in piedi, subito imitato dagli altri. «Avessimo di fronte almeno degli inglesi! Ci avrei più gusto a farne una marmellata. Ma sono Irochesi, selvaggi che non conosco e contro i quali non ho motivo di odio.»
«Sono però alleati dell’Inghilterra,» disse Jor esaminando la sua carabina per assicurarsi che fosse a punto.
«È vero.»
«E poi,» soggiunse Piccolo Flocco, «non bisogna dimenticare che vi è fra essi il nostro amico Davis.»
«Corpo di mille campanili!…» strepitò il vecchio bretone eccitato da quelle parole come un cavallo militare da una fanfara di guerra. «Me n’ero scordato proprio di quel furfante: andiamo a cercarlo tra le file degli Irochesi… e il primo di noi che lo avvista lo mandi a picco nell’oceano di pece bollente in cui naviga il suo compare Belzebù. Fuori, gabbiere del Pouliguen, facciamo vedere a questi musi impiastricciati del Canada come sanno battersi i marinai francesi.»
«Eccomi, mastro,» gridò Piccolo Flocco, slanciandosi dietro a Testa di Pietra che era uscito precipitosamente dalla capanna.
Jor e Hulrik fecero altrettanto.
Il segretario del marchese d’Halifax invece, udendo scoppiare all’improvviso quel frastuono di voci selvagge e di colpi d’arma da fuoco, s’era sentito invadere da una subitanea tremarella che ali faceva piegare le ginocchia.
«Ah,» sospirò egli infine, lasciandosi cadere di peso sopra alcune pelli d’alce distese al suolo, «in che razza di pasticci ho da trovarmi proprio io che non sono uomo di guerra. E tutto per colpa di quel maledetto marchese d’Halifax, mio ex padrone, che potrebbe vivere tranquillo e beato, ed invece va a cercare dovunque il suo malanno, e quello degli altri! Che il diavolo se lo porti!»
E rimase immobile, con la testa fra le mani, come per chiudere gli orecchi a tutto quel po’ po’ di fracasso che gli giungeva dal di fuori, con gli occhi fissi sul gruppo delle tredici mogli del sackem, addossate l’una all’altra, ma in apparenza meno spaventate di lui.
Frattanto Testa di Pietra, Piccolo Flocco, Jor e Hulrik erano corsi nel punto dove la mischia sembrava svolgersi più furiosa, supponendo che là dovesse trovarsi il capo dei guerrieri lrochesi, con Davis.
Guidati da Macchia di Sangue, che era un bravo guerriero, i Mandani si erano disposti in una triplice fila torno torno all’accampamento, traendo profitto da quanto per la natura del luogo poteva offrire un riparo, distribuiti in reparti di archibugieri e di arcieri.
La notte, come sappiamo, era profonda e nebbiosa, ma il riverbero del candido lenzuolo di neve che tutto ricopriva dava una certa luminosità che permetteva di scoprire quanto accadeva a una certa distanza.
Gli Irochesi s’erano avanzati astutamente senza rivelare la loro manovra e il loro numero.
Gli esploratori mandani ne avevano segnalata la presenza, ma non altro.
La grande distesa dei boschi nani, che giungeva fino alle acque del Champlain, favoriva la tattica degli Irochesi, permettendo loro di tenersi il più possibile nascosti durante l’avanzata silenziosa.
Comprendendo però che era ormai impossibile piombare di sorpresa nel campo mandano, essi, ad un segnale convenuto, si svelarono, lanciandosi risolutamente all’assalto dei Mandani.
Questi si accorsero allora di essere per tre quarti accerchiati da forze nemiche che li superavano almeno del doppio, numericamente, poiché quanto al valore individuale si equivalevano. L’unica via libera era quella del fiume fino all’insenatura ove erano ormeggiati i canotti.
Ma questa circostanza, favorevole in altra occasione, diventava invece assolutamente contraria e forse più d’ogni altra pericolosa, per la presenza nel lago della flottiglia inglese.
E fu appunto tutto questo che rilevò col suo occhio di esperto marinaio Testa di Pietra, traendo dalla sua pipa rabbiose boccate di fumo, quasi dovesse essere quella l’ultima volta che se ne serviva.
«Siamo in trappola!» borbottò egli. «È necessario sbaragliare alla svelta questi cani d’lrochesi e ritirarci in mezzo ai boschi, perché mi par di vedere i pennoni delle navi di Burgoyne adorne di tante brutte cordacce a nodo scorsoio… la qual prospettiva non è poi molto migliore del palo di tortura usato dai selvaggi di questo paese.»
I pellerossa di tutta l’America sono o, per dir meglio, erano, poiché ormai questa razza aborigena si può considerare per intero distrutta o assorbita dalla civiltà inesorabile, uomini intrepidi e formidabili, quando si mettevano «sul sentiero della guerra», come usavano dire col loro linguaggio immaginoso e pittoresco.
Il piacere di uccidere e di scotennare il proprio nemico era in essi tale da valere qualunque sacrificio per provarlo: l’abbandono della tribù, delle donne, dei figli, l’affrontare rigori, disagi, fatiche, pericoli d’ogni specie non impedivano loro di marciare in armi con l’entusiasmo più grande.
Fra tribù e tribù esistevano continui attriti che prima o poi scoppiavano in lotte sanguinose, ma l’odio maggiore si concentrava concordemente sull’uomo bianco, il ladrone civilizzatore.
A disarmare questo odio, tuttavia, almeno momentaneamente, valeva spesso la deleteria «acqua di fuoco», l’aguardiente, il gin; e gl’inglesi sopra tutti lo sapevano distribuire con abilità, con larghezza, per guadagnarsi l’amicizia delle tribù indiane più pericolose.
Ciò abbiamo voluto dire per spiegare l’accanimento col quale si combatteva sulle rive del Champlain fra due tribù di pellerossa che nulla avevano di diverso, all’infuori del nome.
La battaglia s’era fatta generale.
I colpi d’arma da fuoco si succedevano ai colpi; le frecce attraversavano incessantemente gli strati aerei, sibilando, perdendosi fra gli alberi spogli, quando non colpivano nel segno e non gettavano a terra, morto o morente, fra spasimi atroci, un nemico.
In alcuni punti l’azione s’era fatta più stretta in una lotta corpo a corpo.
I vecchi catenacci, gli archibugi sgangherati si tramutavano in mazze poderose, afferrati con ambo le mani per la grossa canna; le lance percotevano col ferro acuminato gli scudi oblunghi cercando di ferire le carni; i tomahawh, le armi di razza, le formidabili scuri nazionali, martellavano colpi su colpi. E in mezzo a tanto fragore d’armi echeggiavano spaventosamente le grida selvagge, i lamenti dei feriti, i comandi dei capi.
Il sottocapo Macchia di Sangue era formidabile a vedersi.
Distribuiva botte da dannato e ognuna di esse doveva buttare a terra un avversario.
Ma anche dalla parte degli Irochesi si combatteva con impeto non minore.
Il loro sackem, Caribou Bianco, e il capo, Serpente Lento, erano due guerrieri colossali, alti sei piedi e tre pollici, con un corpo nerboruto e un viso lardellato di cicatrici.
Avendo osservato la strage che compiva intorno a sé Macchia di Sangue, il primo di essi si fece largo tra i suoi e venne a misurarsi col sottocapo dei Mandani.
Negli altri punti ove ferveva la battaglia, però, le cose volgevano contrarie ai Mandani.
Ad un tratto una delle loro file fu sfondata e gli Irochesi entrarono nell’accampamento, preparandosi a prendere gli avversari alle spalle, stringendoli così fra due fuochi.
Testa di Pietra, che aveva gli occhi a tutto, s’accorse del pericolo e concentrò la sua attenzione su quel punto.
Un grido di furore gli sfuggì.
Alla testa di quella schiera d’Irochesi vittoriosi era un uomo bianco.
Egli lo riconobbe.
«Davis!…» urlò. «A me, amici; a me, Piccolo Flocco, Hulrik, Jor… seguitemi con quanti indiani potete raccogliere. All’abbordaggio, per mille corvette fracassate, all’abbordaggio di quei furfanti, come se fossimo nella gran tazza!…»
E, cacciatosi in tasca la pipa ormai spenta e ch’egli forse considerava come un talismano preservatore, corse ad incontrare i nemici che s’avanzano agitando le armi e cacciando terribili urla trionfali.
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