Capitolo XVII – Una serie di avventure

Dopo un breve silenzio, senza che nessuno dei viaggiatori rallentasse la marcia verso il castello di Clairmont, Sir William riprese a dire:

«Quantunque io non dubiti dell’esito che dovrà avere questa accanita guerra, sono costretto a riconoscere che una strana fatalità ci è assai spesso contro. Sembra che il destino voglia contrastare al popolo degli Stati Uniti, come nella seduta del 4 ottobre dell’anno scorso il congresso stabilì si chiamasse la nuova confederazione, il suo diritto alla libertà, all’indipendenza. Dopo i rovesci gravissimi sofferti da Arnold per opera del generale inglese Carlenton, nel Champlain, le notizie di Ticonderoga e dal forte Edoardo giunte al comando in capo furono sempre delle più incerte e delle più preoccupanti. Si sa che il generale Burgoyne, recatosi a bella posta in Inghilterra per ottenere il comando supremo dell’esercito operante nel Canada, ha ottenuto il suo intento e ora spadroneggia in queste regioni con settemila fra inglesi e mercenari tedeschi, quattromila guastatori canadesi, buon numero di navi e di marinai e molte tribù di pellerossa, amicate a furia di promesse. Burgoyne incominciò la sua campagna nel Canada, indirizzando un manifesto alle popolazioni per indurle a sottomettersi spontaneamente, asserendo che entrava nei territori americani per ristabilire l’ordine e quale liberatore dei buoni cittadini, ma che, se a queste sue favorevoli intenzioni avessero resistito, egli, lasciando libero il freno alle numerose masnade d’indiani alleati, avrebbe ridotto quel fiorente paese in uno squallido deserto. Queste sono le notizie meno incerte che noi abbiamo, poiché già da molto tempo nessuno degli esploratori qui inviati ha fatto più ritorno; nessun messo di Saint-Clair o di Arnold è giunto, e le voci più contraddittorie circolano sulla sorte dei presidi americani nel Champlain. Dopo la tua partenza, mastro Testa di Pietra, arrivò la nuova che il forte Ticonderoga era caduto e che la sua guarnigione era stata distrutta, dispersa, imprigionata, e i superstiti costretti a rifugiarsi in altre fortezze ove gravissimi pericoli li minacciano. Che vi è di vero in tali notizie? Io le credo e le spero false: certo non è facile accertarle, nella loro verità, essendo sì grandi le distanze e sì scarse le comunicazioni, specie in tale stagione. Tuttavia, il generale Washington è preoccupatissimo, e ha chiesto un ufficiale abile e prode per inviarlo qui, mentre si prepara la flotta di soccorso. Egli ha avuto la bontà di scegliere me ed io accettato con ardore, imbarcandomi in una piccola corvetta alla quale ho posto il nome dell’antica.»

«La Tuonante!…»

«Sì.»

«L’impresa non era facile a compiersi: bisognava eludere a qualunque costo la vigilanza della flottiglia di Burgoyne e passare.»

«E siete passato.»

«Sì, mastro.»

«Per il borgo di Batz, nulla è difficile, mai, ai corsari delle Bermude.»

«Ma anche tu sei sano e salvo… e se la tua fusta è naufragata non fu per merito dei cannoni inglesi…»

«Fu colpa degli scogli del Champlain.»

«Vedi?»

«Eh, eh, in primo luogo io sono il vostro mastro cannoniere, quindi uno di quei corsari che non s’arrestano davanti ad ostacoli di sorta…»

«Bene.»

«Poi non mi sono preoccupato affatto della flotta inglese, poiché la credevo lontana ancora dal Champlain. E ciò significa che la fortuna mi assiste sempre.»

«Così non posso dire io, caro Testa di Pietra…»

«Oh oh, quale altra diavoleria vi è accaduta?»

«La Tuonante…»

«Quella nuova, s’intende.»

«Già.»

«Ebbene?»

«Sbattuta dalle onde del lago, assalita rabbiosamente dalle raffiche, mal governata dal pilota che Washington m’aveva indicato…»

«Mio Dio, sarebbe… naufragata anch’essa?»

«No, grazie al cielo: ha dato in una secca, ma si regge ancora bene in chiglia, tanto più che è internata in una specie di baia. Spero di disincagliarla presto, appena si calma un pò il Champlain, come accenna a fare.»

Testa di Pietra si era molto rannuvolato in viso, facendosi pensieroso.

«A me Davis, a voi, comandante, un pilota che m’ha l’aria di essere fratello di quel briccone,» riprese poi con voce sorda. «Sapete che il generale Washington, se è un grande guerriero in terra, è un cattivo ammiraglio in mare? Quando si tratta di marinai, mette le mani o su dei traditori o su degli asini.»

«Ahimè, sì, dei traditori specialmente,» replicò Sir William sospirando, «e sono troppi che lo circondano, e non li può conoscere tutti, per guardarsene. Intanto io ho fatto mettere ai ferri il pilota, finché non si sia giustificato abbastanza.»

«Così potessimo dargli per compagno mastro Davis.»

«Ohibò… se sono complici, messi insieme ci darebbero de’ bei fastidi.»

«Oh, penserei io a custodirli…»

«Orsù, vecchio chiacchierone, lascia che io finisca il mio racconto.»

«Perdonate, capitano.»

Sir William sorrise e ripigliò:

«Nella disgrazia che ci piombava addosso con l’investimento della corvetta, avemmo la buona ventura di trovarci arrestati a poca distanza da una rupe sormontata da un vecchio castello, il quale, come certo indovini, è precisamente quello di Clairmont verso cui siamo diretti. Io ignoravo il vero stato della nave e temevo molto un disastro irreparabile per l’infuriare delle onde. Che sarebbe avvenuto di Mary, della mia sposa adorata? Questo era il mio costante pensiero, la mia fiera preoccupazione, pur riflettendo io al mio dovere di soldato. Ma che volete? Il cuore è sempre al di sopra della mente e, talora, anche della coscienza. In mezzo a tante inquietudini vidi avanzarsi arditamente alla nostra volta una scialuppa montata da alcuni marinai vigorosi e da un uomo che teneva il timone come un genio marino. Era il proprietario del castello, il signor di Clairmont qui presente, che, avendo assistito al nostro naufragio, veniva ad offrirci i suoi servigi. Salì a bordo, dapprima con una certa diffidenza che, ad onta fosse ben dissimulata, non sfuggì al mio occhio indagatore. Quando seppe però che eravamo del partito repubblicano, e non degli inglesi, si mostrò lietissimo e si mise a nostra completa disposizione. A me premeva, innanzi tutto, porre in salvo Mary, quindi mi affrettai ad accettare la sua proposta di condurla al castello ove sarebbe stata al sicuro e avrebbe trovato la buona compagnia di gentildonne. Ma una viva sorpresa mi attendeva entrando in quella ospitale dimora. Indovini tu, Testa di Pietra, chi vidi venirmi incontro tutto sconvolto dalla sorpresa?»

«Corpo d’un campanile, forse…»

«Sì, lui… Wolf il bravo assiano.»

«Ma come si trovava là, il fratello del nostro Hulrik? Ce lo aveva guidato forse l’odore di qualche botte di birra o di vino… scorpionato?»

E, così dicendo, il vecchio bretone rise fragorosamente, mentre gli altri facevano coro.

«No, mastro,» soggiunse il baronetto seriamente. «se quell’ottimo giovane storpiasse meno le parole della nostra lingua o avesse più volontà di parlare de’ fatti suoi, ti narrerebbe delle cose assai spiacevoli.»

«Io scherzavo, comandante, perché conosco i due nostri assiani quali giovanotti di umore gaio. Del resto so già da Jor dell’inseguimento degl’Irochesi, e, in fede mia, confesso che anch’io avrei affidato la vita alla velocità della mie gambe.»

«Orbene, Wolf cercò di attenersi il meglio possibile alle indicazioni e ai consigli del canadese, a quanto l’eccellente assiano mi disse; ma la sua buona volontà e la vigoria dei suoi garretti, se valsero a sottrarlo agli Irochesi, non gl’impedirono di errare nella direzione da seguire. Vi avverto subito, amici miei, che narrandovi io queste cose e quelle che udrete, mi sostituisco non solo a Wolf, ma anche al signor di Clairmont. Il perché lo vedrete. Wolf, fuggendo e perdendo l’esatta nozione del cammino, s’allontanava a poco a poco dalla sua mèta, perdeva tempo e forze. A un certo momento si trovò completamente smarrito e incapace di fare altra strada, costretto a riposarsi in una foresta solitaria, desolata, priva di tutto quanto possa giovare a ristorar un povero viaggiatore sperduto. Egli stava dunque per rassegnarsi alla sua sorte, quando udì un rumore poco lontano e vide apparire al suo sguardo due forme nere. Ogni cosa mobile, tra la solitudine, l’ombra e il silenzio, assume alla fantasia degli aspetti strani. Ma Wolf è giovane di mente solida e di cuor forte e non si lasciò ingannare dall’immaginazione. Osservò bene le forme nere e s’accorse che si trattava di due bellissimi alci. Se lo ignorate, l’alce è una specie di cervo, mammifero plenicorno che ha l’altezza di un grosso cavallo, senza eguali alla corsa, più terribile del toro più selvaggio nel menar colpi di testa, forte sì nelle gambe che spaccherebbe a calci un’incudine. Le sue corna sono più corte di quelle che adornano il capo di suo cugino il cervo, ma sono più larghe e hanno più vaste diramazioni. Qui sta per diventare rarissima, a causa della caccia accanita che gli si dà; ed esso, che in quiete è molto mansueto, odia la presenza dell’uomo, suo persecutore e massacratore, e lo assale non di rado ferocemente.»

«Bene a sapersi: appena vedrò un alce girerò alla larga.»

«È appunto quanto si affrettò a fare Wolf, appena scorse i due grossi quadrupedi galoppare con aria risoluta contro di lui. Egli aveva lo schioppo carico, ma l’arma rappresentava un colpo solo, mentre gli avversari erano due. Ammettendo che la botta fosse riuscita ad abbatterne uno, restava pur sempre l’altro, dal quale non vi era mezzo per difendersi. Raccomandarsi alle gambe non era possibile, con dei corridori di quella forza. E allora…»

«Che fece Wolf?»

«Con molta prontezza di spirito e più pronta rapidità di esecuzione, si gettò dietro il grosso tronco di una quercia centenaria che sorgeva a poca distanza da lui e che lo nascondeva magnificamente.»

«Benone.»

«I due alci che galoppavano diritti sopra l’assiano, a testa bassa, non vedendolo più, improvvisamente si arrestarono sconcertati. Wolf, tenendo un occhio fisso tra due protuberanze a un lato del tronco, li spiava ansioso, nella speranza che se ne andassero. Uno dei due animali, il più robusto, fiutò l’aria un poco, con atto sospettoso, voltando qua e là il muso dalle nari fumiganti, e d’un tratto si scagliò contro la quercia, urtandola terribilmente. Il cozzo fu tale che Wolf credette di vedere il bestione rovinare al suolo col cranio in frantumi.»

«E invece?…»

«S’ingannava.»

«Pel borgo di Batz, gli alci del Canada hanno dunque la testa dura come i bretoni?»

«Press’a poco.»

«Ah!»

«L’alce restò come stordito, e si ritirò traballando, ma ritto sulle quattro zampe. Vi fu un momento di tregua, durante il quale Wolf considerò seriamente la situazione. Essa era brutta assai per lui. La quercia era il suo unico riparo, ed egli poteva sfuggire agli assalti del nemico girando intorno al tronco. Ma che sarebbe avvenuto se anche l’altro alce fosse entrato in lizza?»

«Evitandone uno, si trovava davanti l’altro.»

«È vero.»

«Urgeva quindi fare un tentativo estremo…»

«Piantare una palla nel corpo di uno dei due alci e renderlo per sempre inabile alla manovra… Radiarlo dai quadri, insomma.»

«Per l’appunto.»

«Bravo il mio bevitore di birra!…»

«Senza perdere un attimo, Wolf approfittò del turbamento e dell’incertezza in cui erano i due animali, esaminò la carica della sua carabina, la vide a punto, poggiò la canna sopra una delle protuberanze della quercia, prese un istante di mira e fece fuoco.»

«Ecco l’alce aggressore bell’e servito.»

«No.»

«Oh oh!» esclamò Testa di Pietra.

«Fu il compagno che ricevette la botta nell’occhio destro e piombò a terra fulminato.»

«E l’altro?»

«L’altro montò subito in un tremendo furore e si scagliò di nuovo contro la quercia e, abbandonandosi ad un vertiginoso galoppo intorno all’albero, lo scortecciò rabbiosamente con formidabili cornate. Wolf doveva compiere miracoli di destrezza, d’agilità, di sangue freddo, per salvarsi da quella furia, girando attorno al tronco, e sentiva a poco a poco le forze abbandonarlo e la morte atroce farsi imminente. Le zampe dell’alce facevano schizzar la neve fino ai primi rami della quercia e l’alito caldo, bestiale, investiva come un soffio impetuoso il povero assiano. Wolf si stremava e perdeva terreno; l’alce invece acquistava sempre vigore dall’accrescersi della sua rabbia che, a tratti, si sfogava in rauchi bramiti, e guadagnava terreno. D’improvviso Wolf si sentì raggiunto, urtato ad un fianco, con violenza, sollevato in aria. Uno dei rami delle corna l’aveva preso a metà della persona, entrandogli sotto la robusta cintura di cuoio. Il nostro povero amico si vide perduto e istintivamente s’afferrò con le braccia e con le dita alle vaste corna dell’animale, gettandoglisi in pari tempo a cavalcioni del dorso poderoso. L’alce, che credeva di scagliare al suolo il suo avversario vinto e di schiacciarlo a colpi di zampa, diede una formidabile scrollata…»

«E Wolf?…»

«Sempre duro e saldo.»

«Per la mia vecchia pipa, come avrei voluto veder la scena!…»

«Non aveva essa per testimoni che gli alberi della foresta.»

«I quali non contano.»

«Ma Wolf è qui che mi ascolta e sente che io ricordo bene tutti i particolari che sono riuscito a trargli di bocca, non senza fatica.»

L’assiano, il quale procedeva a braccio di suo fratello Hulrik, tutto intento al racconto, sorrise inchinandosi.

Sir William Mac-Lellan seguitò:

«Per due o tre minuti vi fu una fierissima lotta tra l’animale che voleva liberarsi del suo improvvisato cavaliere e questi che non voleva abbandonare la presa, temendo a ragione, una volta a terra, di essere alla mercé di quella furia. Poi l’alce, visti vani i suoi sforzi, parve impazzire del tutto pel furore e si slanciò ad una corsa cieca, fantastica, ad una fuga spaventosa, senza direzione, senza mèta, trasportando l’uomo su di sé, afferrato più che mai strettamente a quel bolide vivo, spaventato nel vedere ad ogni passo la morte, e tuttavia incapace e impossibilitato a fare un tentativo per salvarsi. Quanto durò quella galoppata senza pari? Wolf non lo seppe certo stabilire. Ad un tratto egli udì dei latrati, scorse delle figure umane agitarsi, così, in confuso, percepì delle grida, uno sparo… poi sentì il vuoto spalancarsi sotto di sé, per qualche attimo, e provò la sensazione di un’acqua gelida che lo avvolgesse da capo a piedi… Poi più nulla.»

«Aveva perduto i sensi?»

«Sì.»

«E quando li riacquistò?»

«Si trovò in una camera ben riscaldata, sopra un letto soffice, circondato da persone che lo contemplavano sorridendogli amorevolmente. E due ore dopo era in grado di sedersi ad una tavola bene imbandita, non solo, ma anche in grado di venirmi incontro, mentre io entravo nel castello di Clairmont, e di darmi vostre notizie.»

«Che era dunque avvenuto?» chiese Testa di Pietra che cominciava a confondersi un poco in mezzo a quegli avvenimenti.

«La risposta ora spetterebbe al signor di Clairmont… Ma preferisco dartela io, perché egli ti nasconderebbe, per modestia, almeno una metà del vero. I latrati e le grida udite da Wolf erano lanciati da Lampo, il bravo cane che è qui con noi, e da alcuni uomini che accompagnavano il barone di Clairmont di ritorno al castello. Il prode gentiluomo francese vide la tragica scena e, rapido come il baleno, puntò la carabina, prese di mira l’alce, sicuro di non fallirlo, di arrestarlo di botto, e sparò. L’animale, colpito a morte ebbe ancora la forza di continuare per pochi metri la corsa. Disgraziatamente era giunto al lago, in un punto alto della riva, e precipitò di schianto nei flutti. Era appunto di lassù che il signor di Clairmont stava osservando il nostro investimento nella secca. Pel momento, egli non si era occupato più di noi, e, fatto un cenno a Lampo, si slanciò nel lago seguito dal cane. Wolf, svenuto, stava per essere travolto dai flutti, mentre l’alce era già scomparso sott’acqua; raggiunto da Lampo e dal suo valoroso padrone, il bravo assiano fu tratto in salvo e condotto al castello. Il barone di Clairmont, che non voleva perdere l’occasione di compiere due buone azioni in un sol giorno, si concesse appena il tempo di cambiar gli abiti bagnati con altri asciutti e venne ad offrirci i suoi servigi. Non contento di ciò, saputo da Wolf che gli Irochesi, dopo aver imprigionato o ucciso quel vostro amico canadese… che si chiama…»

«Riberac.»

«Già… si preparavano ad assalire i Mandani, mi consigliò di organizzare nella notte una spedizione di soccorso con parte dei miei corsari e dei suoi servi, offrendosi per guida. Ora voi sapete, amici miei, quanto riuscirono utili il suo suggerimento e il suo aiuto, e quale gratitudine dobbiamo a questo nobile figlio della Francia che sa esercitare con tanto onore i doveri dell’ospitalità.»

Sir William tacque, andando a stringere la mano al barone di Clairmont che con dei cenni vivaci tentava di protestare.

Gli altri si scoprirono il capo, in un muto reverente saluto; poi Testa di Pietra disse:

«Signor barone, io non ho che una vita e anch’essa molto impegnata e un pò già logora. Tuttavia credo che ve ne sia sempre qualche pezzo in buono stato da mettere a disposizione dei galantuomini come voi. Pel borgo di Batz, servitevene, esso vi appartiene da questo momento… L’antico mastro della Tuonante non ha che una parola. Ed ora avanti, amici miei, viva la Francia, viva l’America e morte agl’inglesi!…»

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