Oltrepassata un’ultima estensione di betulle nane, i nostri amici e le loro scorte giunsero in vista di quella parte del lago ove, a cavaliere di una rupe, sorgeva il castello di Clairmont.
Era questo una fortezza di modello francese, con un maschio, quattro torri agli angoli, delle vedette e degli sporti.
Non aveva un aspetto troppo guerresco e pareva privo di artiglierie.
La sua caratteristica principale, poi, era quella di essere costruito quasi tutto con una qualità di legname detto «legno-ferro». Soltanto in basso si vedevano costruzioni di sasso e cemento.
La rupe dove il castello sorgeva aveva i fianchi quasi a perpendicolo, ed era abbastanza elevata sul lago e rivestita di vegetazione folta e nerastra, che dava all’insieme un aspetto un po’ triste, lugubre.
Ma il castello nondimeno, con i suoi coni acuti e sormontati da banderuole svolazzanti prometteva un asilo dolce, confortevole, fors’anche gaio.
«Sulla vedetta più alta della rocca vi è qualcuno che sta spiando ansiosamente il nostro arrivo,» disse il barone francese osservando con la sguardo esperto la sua dimora.
«È vero,» rispose sussultando Sir William. «Mi sembra di riconoscere la mia diletta Mary… il cuore, del resto, me ne dà conferma.»
«Accanto a lei vi è la baronessa.»
«Esse ci attendono con ansia.»
«Lo credo.»
«Affrettiamo il passo.»
«Non temete, Sir Mac-Lellan, poco cammino ci resta da fare.»
«Sono impaziente di rivedere mia moglie, di rassicurarla, e poi di raggiungere la mia nave per rimetterla a galla.»
«Vi comprendo.»
«Siete un gentiluomo di gran cuore.»
«Eh via… Ecco, dietro quel folto di piante è la lingua di terra che unisce la rupe, la quale rappresenta il mio dominio d’avvoltoio, e la riva. Se il Champlain fosse calmo, basterebbe un segnale con questo corno da caccia per far accorrere i miei marinai con le imbarcazioni ora nascoste in una piccola cala invisibile. Si risparmierebbe metà strada. Ma il lago è ancora molto agitato e perciò bisogna rinunciarvi.»
«A proposito… e la flotta inglese che incrocia al largo?»
«Pare che abbia smesso di sprecare della polvere.»
«Dite, barone di Clairmont, non avete mai avuto fastidi dall’Inghilterra?» chiese il baronetto.
«Qualcuno… ma ho saputo sempre respingerlo.»
«È dunque veduta di buon occhio la vostra presenza in questi luoghi?»
«È tollerata, in virtù di un decreto ch’io ho saputo strappare al sovrano inglese e col quale si riconosce il mio pieno diritto di possesso al castello di Clairmont. Ahimè, nutrivo un bel sogno nella mia vita.»
«Quale?»
«Riconquistare alla Francia il Canada.»
«Ah barone!»
«Sì, amico mio; era un sogno troppo superbo e vano, e perciò ho dovuto spegnerlo in me. Ora parteggio in segreto per la causa americana.»
«Bene.»
«Qualunque inglese venisse a visitare il mio castello, non sospetterebbe mai, per quanto astuto, ciò che vi nasconde.»
«Mi ponete in curiosità, signor di Clairmont…»
«Zitto; ogni cosa a suo tempo.»
«Come vi piace.»
«Vi basti sapere, sir, che quel castello, che sembra un giocattolo, è invece una vera… macchina infernale.»
Erano giunti alla striscia di terra gettata dalla natura attraverso il lago. Vi s’inoltrarono e in breve arrivarono all’entrata della bocca di legno-ferro.
Grida di gioia accolsero il ritorno di Clairmont e di Sir William.
La baronessa e Mary si gettarono fra le braccia dei rispettivi mariti, poi diedero il benvenuto ai nuovi ospiti.
Testa di Pietra, Piccolo Flocco, Jor, i due assiani e Oxford seguirono agli appartamenti superiori i padroni di casa.
Gl’indiani e i marinai vennero invece condotti in un vasto tinello a pianterreno e messi in presenza di alcune pinte di eccellente acquavite.
Con pronta intuizione il signor di Clairmont comprese che la prima cosa gradita da farsi ai suoi ospiti era quella di porli a sedere dinanzi ad una buona tavola imbandita, e così fece.
Sebbene non lo confessassero, i nostri eroi avevano una fame da lupi, e non si fecero quindi pregare ad attaccar bravamente i prosciutti d’orso, i cosciotti di opossum, i filetti di alce, i sanguinacci, i salami e i salmoni che troneggiavano in abbondanza sulla mensa, tra ampie caraffe e vasti bicchier di sidro e di birra, alla quale soprattutto Wolf e Hulrik volgevano insistentemente gli sguardi più amorosi, quando la necessità di mangiare impediva loro di berla.
Al banchetto non fece onore l’ex segretario del marchese.
Evidentemente il poltrone, mentre i suoi compagni si battevano con gli Irochesi aveva pensato a riempire la pancia per sostenere lo spirito avvilito.
La famiglia del barone di Clairmont si componeva di sua moglie, una gentildonna nata da un nobile francese e dalla figlia di una capo algonchino, unitisi in matrimonio quando il Canada apparteneva ancora alla Francia: di due figli, il primo dei quali Enrico, giovane forte e bellissimo, come gli ospiti del castello potevano constatare da un grande ritratto ad olio che si vedeva nella sala, era allora assente, essendosi recato alla caccia di preziose pellicce, mentre il secondo, Carlo, che non doveva contare più di sedici o diciassette anni, aveva dovuto restare al castello soffocando le smanie del suo animo avventuroso; di una figlia, Diana, non ancora ventenne, leggiadra quanto mai, bionda come l’oro, dolcissima nell’aspetto e nel cuore: una creatura adorabile.
Il signor di Clairmont era assai ricco per l’eredità della consorte e per la floridezza del suo commercio di pellicce che, però, aveva subito ora un arresto a causa della guerra trasportatasi nel Canada.
Aveva molti domestici che lo adoravano insieme con tutti i membri della sua famiglia; una schiera di Algonchini fedeli a tutta prova, i quali attendevano specialmente alla caccia, alla pesca, alla navigazione del lago e alla custodia del castello; un cappellano, l’abate Rivoire, che gli indiani chiamavano il «padre dell’orazione», e che serviva da precettore ai figli del barone, uomo di buona dottrina e di ottimo cuore e in pari tempo pieno di coraggio e destro alla caccia e alla guerra, fino a voler seguire i suoi allievi o il barone stesso in rischiose imprese, come nella spedizione in soccorso di Testa di Pietra, poiché era appunto l’abate Rivoire l’incognito che accompagnava Clairmont e Mac-Lellan al campo dei Mandani.
Vi erano poi varie donne pel servizio personale delle signore, e la più degna di nota fra tutte era Lisetta, la cameriera di madamigella Diana, una fanciulla orfana, figlia di un emigrato francese, piena di vivacità nella svelta personcina, con un visetto birichino, illuminato da due occhi che lasciavano scorgere insieme la bontà e la furberia, la virtù e l’ardimento più risoluto.
Piccolo Flocco che, nella vertigine di avventure in cui erasi trovata ravvolta la sua vita, non aveva mai avuto tempo né modo di osservare troppo le donne, fu colpito dalla vista di quella fresca ed esuberante bellezza schiettamente francese e cominciò a sentire nel suo spirito un turbamento mai prima provato, uno strano palpito, una soave commozione dentro il cuore, mentre i suoi occhi, con involontaria insistenza, si fissavano in volto a Lisetta che, assieme alla sua padroncina, vigilava al buon andamento del servizio del banchetto.
Piccolo Flocco era un bel giovane, dal portamento fiero senza spavalderia, dall’aria schietta e intelligente: era, insomma, fatto a posta per piacere. Lisetta dovette notarlo e più volte, sorpresa dagli sguardi di leale ammirazione del giovane gabbiere, abbassò i suoi arrossendo, bisogna pur dirlo, non di sdegno, ma di segreto piacere.
Il resto di quella giornata e la notte successiva trascorsero senza incidenti. Sir William prima di coricarsi aveva voluto fare una visita alla sua nave incagliata e ne era ritornato pienamente rassicurato, poiché, essendo caduto quasi totalmente il vento, il lago si calmava a vista d’occhio.
«Domani non vi sarà un’onda a pagarla un milione.» disse egli rientrando nel castello, «e io potrò disincagliare la corvetta e pensare alla missione che mi è stata affidata da Washington.»
Testa di Pietra, il quale era instancabile, voleva ad ogni costo mettersi alla ricerca di Riberac prima che calasse la notte, ma tutti gli consigliarono un riposo di dodici ore almeno, poiché, dopo tutto, era di carne ed ossa, come lo erano i suoi compagni. E l’ostinato bretone cedette brontolando.
Alla mattina delle grida e delle esclamazioni energiche destarono Sir William, Testa di Pietra e i suoi compagni che, sfiniti dalle passate fatiche e dall’insonnia sofferta, dormivano come tanti babirussa.
«Per tutti i campanili della Bretagna, gl’inglesi!…» strepitò il vecchio mastro tra il dormiveglia. «Tutti sul ponte!…»
«Cosa strilli, trombone?» grugnì Piccolo Flocco che dormiva nella stessa camera, voltandosi nel letto.
«Non odi quelle voci?»
«Ebbene?… Siamo in un castello.»
«Ma qui succede qualcosa.»
«Tu sogni, vecchio mio.»
«Uhm.»
«È come ti dico.»
«Scommetto la mia pipa di famiglia contro un bicchiere di vino scorpionato, che stiamo per ricevere una visita degl’inglesi.»
«Bah, daremo loro il benvenuto, ecco tutto.»
«Amerei meglio prenderli a cannonate col mio pezzo da caccia.»
«Serviti pure, mastro sackem.»
«Mozzo del Pouliguen, metti fuori dalle coltri un orecchio e te lo farò diventar lungo come quello di un asino.»
«Cioè… come il vostro.»
E il gabbiere scoppiò a ridere, contento della battuta. Testa di Pietra fece udire un sordo brontolio.
«Brigante, tu mi manchi di rispetto perché sai che ti voglio troppo bene,» soggiunse poi. «Ma io mi vendicherò lo stesso.»
«In che modo?»
«Dicendo male dei gabbieri in genere…»
«Peuh.»
«E di quelli del Pouliguen in specie…»
«Oh, oh.»
«E di una certa cameriera che risponde al nome di…»
«Mastro!…»
«Di Lisetta… Ah, ah, ah, giovinotto, sei toccato sul vivo, ora. Va là, che ti amo troppo per farti anche il più piccolo male. Dimmi, piuttosto, dove dormono Wolf e Hulrik.»
«Qui, nella camera accanto alla nostra,» rispose Piccolo Flocco che si era alzato.
«Sento infatti che si muovono… Ehi là, chi è?»
La porta della camera si era aperta e un uomo era entrato.
«Star io, Hulrik,» rispose la voce del bravo assiano.
«Buongiorno.»
«Puonciorno… Sapere, mastro Testa di Pietra, crande nofità?»
«Forse il Champlain ha ingoiato la flotta inglese, col marchese di Halifax, Davis e i loro compagni?»
«No, no.»
«È ritornato sano e salvo Riberac?»
«Neppure.»
«È giunta una squadra di navi americane?»
«Nemmeno.»
«È arrivato un carico di salsicciotti?»
«Ahimè, no… il lago…»
«Già, il lago… è forse diventato una grossa botte di birra?»
«È… celato, tutto celato, intorno al castello»
«Sei impazzito. Hulrik.»
«Io niente pazzo, io dire ferità.»
«Ma è impossibile.»
E Testa di Pietra, sceso dal letto. si slanciò alla finestra.
Un grido di stupore gli sfuggì
Attraverso un lieve strato di nebbia. che in lontananza appariva più denso, si vedeva la superficie del Champlain immobile, attorno al castello, trasformata in una enorme lastra di ghiaccio.
«Il Lago gelato!…» esclamò il vecchio mastro della Tonante. «Ecco una cosa strabiliante. Vorrei vedere il viso del generale Burgoyne e i suoi marinai, davanti alle loro carcasse imprigionate. Ah, pel borgo di Batz. quali idee mi nascono qui, dentro la zucca… Si potrebbe… ma sicuro che si potrebbe, sicuro… Basta, ci penseremo dopo aver ritrovato vivo o morto il nostro Riberac, è vero. Piccolo Flocco?»
«Penseremo a che cosa?» domandò il giovane gabbiere.
«Eh, lo so io.»
«Se lo sai tu, non aggiunga parola.»
«Vedi, figlio mio, quel ghiaccio?»
«Cospetto, non dormo mica.»
«Orbene, quel ghiaccio… ha acceso nella mia testa un vulcano di idee meravigliose.»
«Bum!…»
«Mozzo del Poliguen, non meriti la mia confidenza.»
Testa di Pietra, che frattanto si era vestito rapidamente, uscì dalla camera e scese al pianterreno del castello, ove trovò già riuniti i suoi Mandani di scorta, ai quali erano state consegnate delle buone armi da fuoco e molte munizioni.
«Dov’è Sir William?» chiese il bretone a Jor che si trovava già là, in pieno assetto di cacciatore canadese.
«S’è recato col barone a visitare la corvetta, temendo che il congelamento le abbia cagionato nuovi danni.»
«Speriamo di no.»
«Contate di partire, mastro?»
«Al più presto: sarebbe un tradimento non tentare nulla per ritrovare vivo o morto quel povero Riberac.»
«Sono del vostro parere.»
«Per prima cosa noi ritorneremo all’accampamento mandano.»
«Già.»
«Quindi faremo una puntata sul luogo ove sorgeva il fortino distrutto dalle palle infuocate dei cannoni inglesi.»
«Sperate di trovare là le tracce di Riberac?»
«Non è improbabile, s’egli è sempre in vita ed ha potuto sottrarsi agli Irochesi.»
«Non comprendo…»
«Che cosa?»
«Ciò che dovrebbe fare al fortino devastato.»
«Dimenticate che il nostro trafficante ha nascosto là le sue ghinee, frutto di anni e anni di privazioni e di fatiche. Ora un uomo, per quanto disinteressato sia, non abbandona senza contrasto e per sempre un tesoro accumulato a prezzo di sangue.»
«Avete ragione.» Testa di Pietra accese la sua pipa, poi chiamò un algonchino e gli disse: «Sai tu dov’è incagliata la corvetta?»
«Lo so, sackem bianco.»
«Bè, potresti guidarci?»
«Quando il sackem bianco vuole.»
«Andiamo allora. Venite con me, Jor?… Ho proprio desiderio di vedere com’è la nuova Tuonante.»
I tre uomini si misero in cammino.
Essi avevano calzato scarpe da ghiaccio, e correvano rapidamente sulla superficie solida del lago.
Giunti alla corvetta, che giaceva incastrata con la prora in un bassifondo, un pò inclinata sul tribordo, montarono sul ponte ove erano il barone e Sir William.
Testa di Pietra, sentendosi finalmente sotto i piedi le tavole di una vera nave da guerra, vedendosi davanti agli occhi dei cannoni e dei sabordi, trasse un gran respiro di soddisfazione.
«Si sta bene qui, pel borgo di Batz!…» esclamò battendo poderosamente i talloni liberi. «Questa corvetta non vale certo la Tuonante di gloriosa memoria, ma può sempre far onore al terribile nome che porta. È, più piccola dell’altra, ma mi sembra solida e ha cannoni in buon numero e che devono sparare a meraviglia. Ah, per mille campanili… con che gusto ora li proverei contro quei bricconi d’inglesi!»
«Non temere, mastro,» disse il baronetto Mac-Lellan, udendo le parole del fiero bretone, «credo che ne avrai presto l’occasione.»
«Uhm!»
«Ne dubiti?»
«Se non mettono le ali, ho paura che le navi inglesi, inchiodate certo come noi qui, tra i ghiacci, non ci verranno a riverire tanto presto.»
«Ma il ghiaccio può sciogliersi da un giorno all’altro.»
Il signor di Clairmont sorrise.
«Se l’inverno si mantiene così rigido come si è annunziato, il Champlain resterà in queste condizioni a lungo… forse per mesi interi.»
«Ah, diavolo.»
«Il congelamento, che già si era verificato nella parte più settentrionale del lago, avanzava a grado a grado: la notte scorsa ha guadagnato tutto questo lato, domani notte si estenderà al rimanente del Champlain.»
«E voi, barone, sapevate ciò?»
«Almeno me lo aspettavo.»
«Cospetto, la situazione è inquietante… Io devo ad ogni costo far pervenire al generale Washington notizie sicure sulla sorte del Ticonderoga e della sua guarnigione, e andare incontro alla flotta americana per prenderne il comando e guidarla contro le navi di Burgoyne nel Champlain.»
«Troveremo il rimedio a tutto.»
«Ho fede in voi.»
«Intanto vedete che la corvetta non ha sofferto danni.»
«Anzi il ghiaccio, sollevandola nel suo alveo, l’ha quasi disincagliata.»
Frattanto Testa di Pietra aveva compiuto la sua visita alla nave e si stropicciava le mani con aria soddisfatta.
«Comandante,» disse a Sir William, «ho veduto anche il pilota chiuso in una cabina. Ha una faccia da traditore che strappa i ceffoni dalle mani. Fatelo impiccare addirittura.»
«Tu corri troppo, mastro.»
«Bah, come volete… Ma ho paura che egli ci sia funesto.»
«Lo farò sorvegliare.»
«E attentamente… Già, una volta ritornato dalla ricerca di Riberac vengo io qui, a installarmi a bordo, poiché io sto bene soltanto fra pezzi d’artiglieria, alberi di trinchetto e di maestra, sartie, paterazzi, odor di catrame e di polvere; e quando ci sarò io… vedremo.»
Ritornarono al castello.
Come era stato convenuto, Testa di Pietra e Jor accompagnati da sei marinai della corvetta, che aveva un equipaggio raddoppiato, e dai Mandani di scorta, tutti armati ottimamente, s’avviarono all’accampamento indiano, donde poi mossero verso l’interno del territorio per cercare le tracce del trafficante scomparso.
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