Nel frattempo il buon abate Rivoire era accorso presso lo sciagurato Oxford che continuava a contorcersi a terra gemendo, fra gli spasimi dell’agonia, e, chino su di lui, lo osservava crollando il capo.
«Quanto soffro…» balbettava il segretario tentando di sollevarsi fra le braccia del ministro di Dio, «un po’ d’aiuto, per pietà… io muoio.»
«Raccomandatevi al Signore, povero infelice,» gli rispose Rivoire.
«È finita, lo sento…» continuò il moribondo, «ed ho quanto mi merito. Abbia Iddio misericordia di me.»
«L’avrà, non temete.»
«Perdono a Sir William, e gli chiedo, anzi, il suo perdono. Ma l’altro, il mio padrone per il quale muoio… Oh, egli che non ha avuto per me uno sguardo… una parola d’amore, di rammarico… sia maledetto!…»
«Non bestemmiate.»
Oxford tacque, per volontà o per esaurimento di ogni forza. Un rantolo penosissimo gli usciva di gola, annunziando imminente la sua fine. Il sacerdote si era inginocchiato e recitava le preci per i moribondi.
Nel centro della stanza, alla luce dei lumi che i servi del barone reggevano in mano, Lord Halifax e il corsaro della Tuonante avevano intanto incrociati i ferri, scagliandosi occhiate furiose e cariche di odio.
Le prime botte furono scambiate fra i due avversari in un silenzio rotto solo dal cozzo metallico delle lame e dal digrignare dei denti serrati.
L’assalto era impetuoso da una parte e dall’altra.
Halifax aveva guadagnato in abilità, dopo l’ultima volta che si era battuto con il fratello, la qual cosa indicava che, nella speranza di restituire al fiero baronetto il suo famoso colpo di spada, si era perfezionato con un lungo esercizio sotto esperimentati maestri.
Ma Sir William Mac-Lellan era sempre una spada di prima forza e il suo avversario dovette constatarlo subito.
Ciò lo rese ancor più furibondo, facendogli perdere molta di quella calma e misura che, nell’arte della scherma, sono elementi preziosissimi.
Per parecchie volte tentò di partire a fondo e passare da parte a parte il corsaro, ma fu gioco inutile e dannoso.
«Finirete col risparmiarmi la fatica infilandovi da voi nella mia spada,» disse a un momento Sir William compiendo un bellissimo gioco che per due volte riportò in quarta la lama dell’avversario che si trovava in terza.
«Non ve ne preoccupate, sir,» rispose Halifax dando un passo indietro, «non ho certo rinunziato all’idea di uccidervi.»
«Penso che vi riuscirete soltanto facendomi assassinare.»
«Non sono un pirata, io.»
«Lo dite per me? Come siete sciocco, milord: confondete, per vera ignoranza, i corsari, che sono leali soldati, con i pirati che sono dei volgari banditi d’acqua. Non sapete dunque la storia, nemmeno quella contemporanea?»
«Ah, basta… Voglio finirla.»
«Non aspetto che il momento buono per farlo,» rispose il corsaro compiendo una magnifica finta.
Halifax fu pronto a parare; poi credette di avere un’apertura e allungò un colpo diritto e fulmineo.
L’avversario a sua volta parò una botta di quarta strettissima e si dette a incalzare.
Il duello divenne impressionante, per l’impeto, l’abilità, il furore mortale che si notavano nei combattenti.
Halifax assaliva con impeto focoso, ma i movimenti spessi e rapidi del suo corpo, che si allungava, si stringeva e fino a dar l’impressione di raggomitolarsi, deviavano la linea della spada e davano un notevole vantaggio a Mac-Lellan, la cui lama fredda, balenante, terribile, ora rigida come una sbarra, ora cedevole come un giunco, si trovava di continuo su quella dell’altro, a parare ogni finta.
A più riprese il lord si era scoperto, offrendo delle aperture, ma, fosse per una strana ripugnanza o perché gli piacesse giocare col marchese al pari di un gatto col sorcio preso, il corsaro non ne aveva mai approfittato, con stupore degli astanti.
Improvvisamente Halifax tentò d’imbrogliare il ferro del suo avversano: questi, con superba parata, incontrò a tempo la lama insidiosa che scivolò stridendo contro la sua, senza ferirlo, diede un balzo indietro e, con fantastica velocità, vibrò alcuni colpi.
Tutti, vedendo il marchese parare a stento e malamente quella pioggia ferrea, lo credettero spacciato, quando Sir William parve pentirsi e con una semplice svoltata del ferro fermò l’impeto già incerto del suo nemico e, avvinghiatagli la spada d’un lampo, gliela fece scattare lontana alcuni passi, gridando in pari tempo:
«Siete disarmato e in mio potere, signor fratello!…»
Il marchese di Halifax cacciò un urlo di rabbia e arretrò alquanto; poi, dimenticando ogni dovere di gentiluomo onesto e leale, gridò:
«Giacché non mi è possibile vincerti con la spada… muori per mano dei miei soldati. A me, figli d’Inghilterra… fuoco su quell’uomo; egli è un traditore, un nemico della patria e del re.»
Gl’inglesi, i quali fremevano di dispetto nel vedere il loro capo tenuto in iscacco a quel modo, abbassarono le armi, pronti all’assalto.
«Ah, no, per il cielo!…» urlò Sir William vedendo il contegno di Halifax. «Voi non siete della mia razza; il sangue di coloro che ci generarono fratelli, entrando nelle vostre vene, si è avvelenato. Siate maledetto, per la vergogna onde coprite il nome che portate e al quale mi unisce un legame naturale. Mio nemico, sì, vi avrei tollerato e, fors’anche, stimato. Ahimè! Vi vedo ora nella vostra vera luce. Siete un vile!…»
«Maledetto… maledetto!…» fece eco una voce debole, come di oltretomba.
Tutti si volsero dalla parte donde era venuta e videro Oxford fra le braccia dell’abate Rivoire, già con i colori della morte sul viso.
Il marchese di Halifax era diventato orribilmente pallido.
Quella maledizione di uno che moriva per averlo servito, lo aveva colpito a sangue, suscitandogli nell’animo tristo il rimorso, il terrore dell’ignoto, un presentimento angoscioso.
Si passò la destra sulla fronte come per scacciare le ombre che vi si erano addensate, poi proruppe in un riso stridulo, sforzato.
«Signori, mister Oxford è morto,» disse in quella il sacerdote sollevandosi. «È morto chiedendo perdono a coloro che aveva tentato di danneggiare.»
«Io gli perdono,» rispose in tono chiaro Sir William Mac-Lellan.
«Io faccio di meglio,» ribatté lord Halifax. «Lo vendico!…»
E, tratta dalla cintura una pistola, prese di mira il baronetto e sparò.
Certamente gli tremava la mano, poiché il proiettile, ad onta della poca distanza, passò un palmo sopra il capo del corsaro e andò a spezzare uno specchio appeso alla parete dirimpetto. L’atto fulmineo fu il segnale del combattimento.
In pochi minuti il castello fu pieno di colpi d’arma da fuoco, di urla bestiali, voci di minaccia, bestemmie, imprecazioni, gemiti di feriti, grida di donna spaventate.
Gl’inglesi erano bene armati ma inferiori di numero: inoltre avevano a che fare con avversari che sembravano nati con le armi in pugno e il fuoco delle battaglie nelle vene.
Il corsaro, il barone di Clairmont con i suoi due figli, Piccolo Flocco, Hulrik, Wolf e l’algonchino si battevano da giganti bersagliando gl’inglesi con magnifica precisione di tiro, picchiando sodo con i calci dei fucili e con le spade.
Gl’inglesi però sostenevano la lotta da valorosi soldati e da gente abituata alla guerra.
Comprendendo che solo col restare uniti potevano opporsi validamente ai difensori del castello e reggere fino all’arrivo dei rinforzi che attendevano, essi si erano asserragliati presso l’entrata del castello, formando una barricata con tutti i mobili che avevano sotto mano.
Mastro Davis si era costituito custode della porta, per essere pronto ad aprirla. Sir William e il barone avevano compreso la manovra e il pericolo che essa rappresentava per la sicurezza del castello: ma era troppo tardi, perciò essi concentravano ogni sforzo nel tentar di sloggiare di là gli inglesi.
Fortunatamente fino allora nessuno di essi era stato ferito, all’infuori di Wolf che aveva ricevuto un proiettile sulla spalla sinistra.
Ma, dopo una sommaria medicazione, il bravo assiano era ritornato sorridente a combattere al fianco dei suoi amici.
Invece i moschetti e le pistole inglesi avevano prodotto molti vuoti tra i servi indiani del barone, i quali, come sappiamo, erano numerosi e quasi tutti algonchini, devoti quindi fino al sacrificio alla famiglia Clairmont, e soprattutto alla baronessa che aveva in sé il sangue fiero e generoso dei loro cacicchi.
Dei seguaci di Halifax, tre giacevano morti e cinque o sei feriti più o meno gravemente; tuttavia, la loro resistenza, dietro la barricata che li proteggeva, durava più a lungo di quanto i nostri avessero preveduto.
«È necessario annientarli prima che giungano qui le truppe inglesi in rinforzo,» disse Sir William al barone di Clairmont.
«Basterà uno sforzo vigoroso da parte nostra,» rispose il vecchio gentiluomo.
«Essi però sono ben ripartiti.»
«Prendiamo d’assalto la barricata?»
«Ah, se avessi…»
«Che cosa?»
«Uno o due dei piccoli cannoni che armano la mia corvetta!…»
«Ecco una buona idea.»
«Difficile ad attuarsi, però»
«Ma io possiedo due colubrine.»
«Dovevate dirmelo subito.»
«Non vi aveva pensato, sir.»
«Andate presto a prenderle e a piazzarle contro quei messeri. Per San Patrick, la vedremo, signori inglesi…»
«A voi l’incarico di tener testa ai nemici. Io corro.»
«Andate pure, signor barone.»
Il gentiluomo francese s’allontanò di buon passo traendosi dietro Hulrik, che era assai vigoroso, e alcuni algonchini.
Essi si recarono al deposito segreto dove il barone teneva nascoste le armi e le munizioni.
L’assiano vide dei fasci di fucili e pistole, trofei di spade e in un angolo due cannoncini e due colubrine.
«Star quelle coluprine?» chiese.
«Sì,» rispose il nobile vecchio.
«Benone, io portarne una supito.»
E, unendo l’atto alle parole, s’avvicinò al piccolo mostro di bronzo e se lo caricò in spalla con la facilità con cui avrebbe manovrato un fucile.
«Io andare,» disse poi.
«Sapete la strada?»
«Oh, ja!… imparata.»
«Andate dunque.»
«Munizioni.»
«È vero… A voi due, algonchini: prendete palle e polvere e seguite quell’uomo.»
Hulrik prese la via del ritorno a passo di carica; i due indiani gli corsero dietro.
Il barone, con altri tre servi, si occupò della seconda colubrina.
Prima di uscire, egli s’avvicinò ad una porticina chiusa e con una chiave che aveva alla cintura l’apri, gettando dentro al vano apertosi un’occhiata indagatrice.
«Sta bene tutto,» mormorò, «se una sciagura irreparabile dovesse piombarci addosso e costringermi a tale estremo… io non esiterei. Speriamo ancora… Potrebbe arrivare Testa di Pietra con i suoi Mandani… E poi, non mi ha detto Enrico che gli Algonchini rimasti fedeli alla Francia, o, piuttosto, a mia moglie e alla nostra famiglia, sapendo che gl’inglesi guerreggiano sul Champlain si sono messi sul sentiero della guerra e intendono venire qui per combattere gl’lrochesi e i loro alleati d’Inghilterra? Suvvia, occorre soltanto liberarci di quegli ospiti importuni, per impedir loro di aprire la porta ai rinforzi che attendono, e il Cielo, che protegge sempre le buone cause, ci aiuterà nell’impresa.»
Così monologando fra i denti, il barone aveva riaccostati i battenti della porticina, senza però chiudere a chiave.
«Siete pronti?» chiese quindi agli algonchini.
«Sì, padrone,» essi risposero.
Due infatti reggevano la colubrina, il terzo si era caricato di munizioni. Il signor di Clairmont prese a sua volta proiettili e polvere e ordinò:
«Presto, in marcia!»
Erano appena usciti dal deposito, che si udì un forte colpo d’artiglieria far tremare il castello.
«Oh, oh,» esclamò sorridendo il barone. «questa è la colubrina del nostro assiano che comincia le sue trattative… con la velocità di un lampo e l’esattezza di un matematico.»
Grida terribili avevano tenuto dietro al rombo del cannoncino. Erano voci di dolore e di rabbia, ordini, imprecazioni, minacce.
«Avanti, avanti!…» disse il signor di Clairmont affrettando il passo. «Quel gingillo ha senza dubbio fatto effetto, e gl’inglesi dovranno ben decidersi ad arrendersi o a farsi massacrare, specie quando sarà entrato in ballo anche questo che noi…»
S’arrestò trasalendo.
«Diavolo, che avviene ora?» borbottò
Aveva udito echeggiar improvvisamente delle nuove grida, ma che stavolta gli parevano di gioia, poi una voce rude, che non riconobbe per alcuna di quelle che gli erano note, esclamare in inglese:
«Finalmente!…»
Un tremendo pensiero lo fece impallidire, ad onta di tutto il suo coraggio.
«Che siano i rinforzi inglesi?… No, non può essere… il cielo non può permettere tanta sciagura… Forse quella parola fu proferita da Sir William Mac-Lellan, nella sua lingua, con l’accento per me irriconoscibile perché alterato. Ma sicuro, deve essere così… Egli ha detto: <Finalmente!> alla vista degli effetti prodotti dalla colubrina.»
Aveva appena formulato tra sé questo pensiero pieno di speranza allorché vide venire correndo verso di lui Piccolo Flocco, il quale si stringeva attorno alla mano sinistra un fazzoletto bianco.
«Voi!…» gli gridò. «Mi cercate forse?»
«Sì, signor barone,» rispose il gabbiere.
«Vi abbisogna l’altro pezzo d’artiglieria?»
«Ho paura che sia troppo tardi.»
«Ma che cosa è accaduto, che cosa accade?»
«Un fatto gravissimo.»
«Spiegatevi, giovanotto.»
«Gl’inglesi di Lord Halifax…»
«Ebbene?»
«Hanno ricevuto gli aiuti che aspettavano.»
«Maledizione!…»
«Il marchese non aveva proferito vane minacce.»
«E allora…»
«Il castello è circondato dai fucilieri d’Inghilterra; Davis, che Belzebù lo strangoli e lo trascini all’inferno, ha aperto loro le porte e molti di essi entrano ben armati e smaniosi di battaglie e di preda.»
«E Sir William?…»
«Ha deciso di consegnarsi nelle mani di suo fratello, purché nulla sia fatto a voi e alla vostra famiglia.»
«Uomo prode e generoso, ma io non permetterò mai simile sacrificio. Ci salveremo o moriremo insieme.»
«Ecco delle parole da galantuomo e da francese autentico.»
«Voi siete ferito, Piccolo Flocco?»
«Ho una scalfittura, non ve ne preoccupate, signor barone; pensiamo ad un rimedio.»
«Bene.»
«Voi avete detto or ora <ci salveremo>.»
«È vero,» rispose il barone.
«Avete dunque un mezzo?»
«Forse.»
«Quale?»
«Una fuga.»
«È cosa ben dura…»
«E io la propongo fremendo di rabbia.»
«Vi comprendo.»
«Ma è necessario salvare milady.»
«La baronessa prima di tutto, poi madamigella Diana, e anche la povera Lisetta. Che cosa bisogna fare?»
«Correre da Sir William e portargli l’ordine da parte mia di battere in ritirata verso questo lato, chiudendosi dietro tutte le porte, per ritardare l’inseguimento dei nemici.»
«Gambe, allora.»
«Io raggiungo le signore per condurle qui. Andate pure, Piccolo Flocco.»
Il giovane gabbiere filò via a portar l’ordine ricevuto, mentre il barone di Clairmont si recava nella stanza ove sua moglie e sua figlia, insieme con la bionda Mary di Wentwort e Lisetta dovevano attendere l’esito della lotta con il cuore trepidante.
Le notizie riferite da Piccolo Flocco corrispondevano alla verità.
I rinforzi che il marchese di Halifax aspettava erano giunti e s’accingevano a rendersi padroni del castello.
Udendo l’ordine di ritirata recato dal giovane gabbiere, Sir William, che già stava per effettuare il suo generoso proposito offrendosi inerme alla sete di vendetta di suo fratello, fece un cenno affermativo e si guardò attorno.
Dietro le spalle aveva una porta con i battenti spalancati; presso di sé i due figli del barone, i due assiani e i servi algonchini, appostati dietro dei mobili rovesciati là a formar una controbarricata, caricavano moschetti, archibugi e pistole, e sparavano ogni qual volta un nemico osava mostrarsi.
La colubrina, dopo la prima scarica che doveva essere stata disastrosa per gli inglesi, aspettava di essere ricaricata.
Il corsaro si volse ad Enrico di Clairmont.
«Vostro padre,» disse, «mi manda l’ordine di battere in ritirata: egli è il padrone qui, e io per primo devo obbedirgli.»
«Credo d’indovinare il suo disegno… Lasciate fare a me, sir.»
«Come volete.»
Enrico di Clairmont si sollevò, alzando le mani disarmate, e gridò:
«Cessate il fuoco, noi ci arrendiamo, signor marchese di Halifax.»
«Ah, ecco che diventate ragionevoli,» rispose beffardamente il lord. «Soldati, abbasso i fucili… gli agnelli camuffati da leoni han ripreso alfine il loro vero aspetto.»
Sir William ebbe un ruggito di furore, ma un’occhiata e un sorriso enigmatico di Enrico la calmarono.
«Che gli altri si ritirino per la porta aperta, mentre noi fingiamo di arrenderci,» sussurrò il giovane Clairmont. «Ad un mio grido <via!> imitatemi e assecondatemi, sir.»
«Non temete.»
All’ordine del giovane barone, gli altri s’affrettarono a rifugiarsi al di là della porta, nel vano profondo di tenebre.
Gl’inglesi, che affluivano numerosi, s’aprivano intanto il varco attraverso la barricata, incitati dal marchese di Halifax, il quale raccomandava:
«Impadronitevi degli uomini, non guastate le cose del castello che ci divideremo come preda di guerra, rispettate le donne… Quanto a te, mastro Davis, ti affido l’incarico di scovare Mary di Wentwort e di condurmela dinanzi.»
Il corsaro, udendolo, strinse furiosamente i pugni.
«Mary in potere di quell’uomo?…» digrignò. «Preferisco mille volte vederla morta ai miei piedi.»
«Io non ho ancora perduta la speranza di salvarci tutti,» disse Enrico.
«È tempo di agire?»
«Sì; gl’inglesi, vedendoci soli qui, si lusingano già di averci in loro mano… Via!…»
Gettato questo grido, il figlio maggiore del barone di Clairmont si slanciò d’un sol balzo alla porta aperta per la quale erano usciti gli altri, seguito immediatamente da Mac-Lellan.
«Chiudere e sbarrare!…» disse Enrico brevemente, appena varcata la soglia.
E in un attimo accostò i battenti, soggiungendo:
«Appoggiatevi fortemente contro di essi, Sir William, mentre io tiro i chiavistelli.»
«Ecco fatto.»
«Bene, ora abbiamo qualche minuto per tentare la fuga. Il castello, ahimè, è perduto, ma siano almeno salve le persone.»
«Per San Patrick!…» gemette il corsaro. «Io sono la causa della vostra sventura.»
«Oh, sir, noi ci aspettavamo questa sorpresa da parte dei soldati di Burgoyne, appena abbiamo saputo che le forze inglesi si concentravano nel Canada e, soprattutto sul lago Champlain. Anche senza l’odio fra voi e vostro fratello, la nostra sorte era decisa. È perciò che mio padre aveva preparato…»
«Che cosa?»
«Niente, niente, lo vedrete. Presto, ora, cerchiamo mio padre.»
I due uomini si slanciarono avanti, udendo gl’inglesi urlare di rabbia e darsi a percuotere la porta per abbatterla.
In pochi momenti Enrico e Sir William si trovarono presso il barone di Clairmont che era circondato dalla baronessa, da Diana, da Mary di Wentwort e da tutti i nostri amici con i servi indiani superstiti, tutti armati e recanti della torce accese.
Il vecchio gentiluomo era cupo in viso.
Una profonda ruga gli tagliava per metà la fronte.
«Nessuna parola,» diss’egli in tono grave e un pò commosso. «Si tratta semplicemente di far presto. Seguitemi.»
S’avviò alla volta del deposito segreto donde erano state tolte le colubrine, e, giuntovi, fece entrare tutti nel vano buio al quale si accedeva per la porticina.
Egli vi s’introdusse per ultimo, sbarrò i battenti, poi si diede un’occhiata attorno. Il luogo era un sotterraneo, che aveva uno sfogo in un corridoio stretto, per il quale andavano ora i fuggiaschi guidati da Enrico di Clairmont.
Nello stanzone a volta bassa si vedevano botti, barili, assi, sparsi qua e là.
Il nobile francese s’avvicinò ad un angolo, tolse da un barile un rotolo di cordicella grossa un dito, un’estremità della quale era infissa in un foro del barile stesso e la tenne un po’ sospesa nelle mani, contemplandola pensieroso.
Ad un tratto ebbe un lungo sospiro, scosse con atto risoluto la testa, mentre un lampo gli brillava nelle pupille e, con passo sicuro, s’inoltrò per la via presa dai fuggitivi, traendosi dietro la cordicella che si svolgeva man mano ch’egli si allontanava.
Poi scomparve, ogni luce sembrò ingoiata dalle tenebre che regnavano là dentro e non s’udirono più che gli echi dei clamori prodotti dagl’inglesi padroni del castello.
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