Kammamuri, come abbiamo già detto, scaraventato in aria dall’urto formidabile dell’avanguardia dei tori, non aveva avuto la fortuna dei suoi compagni di aggrapparsi subito ai rotang ed ai nepentes.
Caduto attraverso un largo foro della rete vegetale, era piombato giù da un’altezza d’una mezza dozzina di metri, cadendo fortunatamente, dopo un paio di giravolte su se stesso, proprio a cavalcioni di una magnifica bestia.
Non avendo perduto nulla del suo sangue freddo e comprendendo che non sarebbe uscito certamente vivo, se si fosse lasciato scivolare al suolo, si era subito aggrappato con suprema energia alle corna.
L’animalaccio, credendo certamente di essere stato assalito da qualche tigre o da qualche pantera nera, si era scagliato a corsa precipitosa, muggendo disperatamente, seguito da tutta l’avanguardia.
Quella fuga doveva essere, almeno in quel momento, la salvezza dell’indiano.
Avendo la carabina ad armacollo e le munizioni ben assicurate, si era sdraiato sul largo dorso del toro, lasciandosi trasportare in quella corsa sfrenata.
L’animale galoppava furiosamente, sfondando con impeto irresistibile i cespugli che gli impedivano il passo e facendo saltare d’un colpo rotang e nepentes.
I rami, violentemente divelti, sferzavano crudelmente il povero indiano, però quel coraggioso si guardava bene dall’abbandonare quella strana cavalcatura, per non sfracellarsi il cranio contro gli alberi della foresta.
Un salto, con quello slancio, sarebbe stato certamente fatale.
«Si stancherà di correre» mormorava l’indiano. «Non ha mica una macchina a vapore nel ventre!» L’avanguardia era già rimasta indietro e forse aveva deviato, abbandonando il compagno al suo destino.
Kammamuri non udiva più i muggiti di tutti quegli animali galoppanti. Udiva solo schiantarsi rami e alberetti, atterrati, o meglio, quasi falciati dal furibondo animale.
Quella corsa durava da più di mezz’ora, sempre animatissima e Kammamuri, spaventato, cominciava a chiedersi dove avrebbe finito e come avrebbe potuto fermarla, quando il toro si precipitò dentro un vasto bacino d’acqua, che formava una specie di palude, unita forse al Maludu da qualche canale.
«Dove mi conduce ora questo animalaccio infernale?» si chiese l’indiano. «Se non lo fulmino con due colpi di carabina, chissà ove andremo a spaccarci il collo!» Stava per togliersi il fucile, quando s’accorse che il toro si era messo a nuotare.
«Oh!…» mormorò. «L’acqua è profonda qui, e forse sotto vi sono delle sabbie mobili! É meglio aspettare che approdi».
Il bufalo s’avanzava sollecitamente, rinvigorito da quel bagno, Ma era sempre in preda ad una vivissima inquietudine e, di tratto in tratto, scrollava il dorso per sbarazzarsi di quel cavaliere, quantunque non avesse ricevuto fino allora nessun colpo d’artiglio.
Ad un tratto Kammamuri lo vide fermarsi e mandare un lungo muggito.
«Che stia per affondare?» si domandò.
Alzò il capo guardandosi intorno con una certa angoscia, poiché gli era balenato il sospetto che in quella palude si trovassero di quegli ingordi gaviali che aveva veduti sul Maludu, ciò che non era improbabile, abitando quei confratelli dei coccodrilli africani anche gli stagni fangosi oltre che i grossi Fiumi.
Si tranquillò subito non vedendo emergere nessuno di quei lunghi e sottili musi armati di formidabili denti.
«Eppure questo toro deve avere fiutato qualche pericolo» mormorò. «Che mi porti a terra; e poi vada pure con Siva o con Visnù, a me poco importa».
Il bufalo infatti non sembrava affatto tranquillo. Ora si avventava nuotando con furia, colla testa alzata per non inghiottire l’acqua fangosa della piccola palude; ora invece si fermava bruscamente, sferrando calci in tutte le direzioni e mandando muggiti sempre più rauchi.
Qualche chiazza di sangue saliva ad intervalli alla superficie lungo i fianchi del povero animale, tingendo l’acqua d’un rosa pallido.
«Ora ho capito» disse a un tratto Kammamuri, il quale si guardava bene dal lasciar pendere le gambe. «Sono le sanguisughe che lo tribolano. Su, morello, tira avanti, se vuoi salvare la tua pelle. Io nulla posso fare per lenire i tuoi dolori. Su, andiamo, portami presto a terra».
Si tolse dalla cintura il tarwar e punzecchiò un poco l’animale presso gli orecchi.
Il bufalo scosse la testaccia, mandando un muggito rauco ed affrettò la corsa o meglio la nuotata.
Cinque minuti dopo raggiungeva l’opposta riva e si slanciava nuovamente a corsa disperata attraverso la boscaglia.
Dai suoi fianchi sanguinanti cadevano a gruppi delle grossissime sanguisughe, le quali correvano subito a rimpiattarsi in mezzo alle alte erbe in attesa di qualche nuova preda, essendo quelle del Borneo abituate a vivere indifferentemente in fondo alle paludi ed anche nelle foreste.
Il bufalo, rinvigorito da quel lungo bagno, aveva ripresa la sua corsa indiavolata, come se le sue forze fossero straordinariamente aumentate, nonostante quel salasso.
Aveva trovato dinanzi a sé un sentiero, aperto da qualche rinoceronte o da qualche elefante, e filava rapido come una tromba marina.
Quel galoppo durava da una ventina di minuti, quando Kammamuri, il quale stava per togliersi la carabina onde fulminare quel terribile corridore che non accennava ad arrestarsi, udì una voce gridare in purissima lingua indiana: «Alto!…» Si volse rapidamente e vide parecchi individui slanciarsi fuori della foresta armati di kampilang, di cerbottane e di parang.
«I dayaki!…» gridò.
Aveva già la carabina fra le mani; la puntò rapidamente verso quei selvaggi che accorrevano urlando e fece fuoco, senza nemmanco mirare.
Udì due grida, poi cinque spari, l’uno dietro all’altro.
Il bufalo selvaggio, crivellato di palle, s’impennò di colpo, poi cadde di quarto battendo la testa contro un grosso albero.
Kammamuri, scaraventato in aria, fece due capitomboli in avanti, poi cadde al suolo, dove rimase tramortito.
Quando il disgraziato tornò in sé, non si trovava più accanto al toro.
Sette od otto uomini lo portavano su una specie di palanchino formato da rami d’albero e da rami intrecciati.
Aveva le gambe e le braccia strettamente legate da corde vegetali ed intorno al corpo una specie di rete di fibre di cocco, che lo avvolgevano tutto, impedendogli qualsiasi movimento.
Dietro al palanchino trottavano una trentina di dayaki, i quali portavano degli enormi orecchini di rame appesi alle orecchie, e alle reni dei gonnellini di stoffa turchina.
Tutti erano armati di cerbottane e di parang pesantissimi, colle punte a forma di docce.
Kammamuri, che conosceva benissimo la lingua di quei selvaggi, avendo soggiornato lungamente sul Kabatuan insieme a Tremal-Naik, il quale vi aveva fondata una grandiosa fattoria, distrutta poi da quei feroci figli della foresta, alzò il capo e chiese a uno dei portatori del palanchino: «Dove mi conducete voi?» Il dayako scosse la testa, abbozzò un sorriso, ma non rispose alla domanda.
«Sei sordo?» urlò Kammamuri, esasperato. «Ti ho chiesto dove mi conducete!» «Domandalo all’orang-kaja» (signore) rispose il selvaggio.
«Chi è questo signore?» «Un uomo bianco».
«Il rajah del lago?» «No: è troppo vecchio quello per muoversi».
«Dov’è quest’orang-kaja?» «Segue la retroguardia».
«Va’ a chiamarlo».
«Abbiamo troppa fretta in questo momento» rispose il selvaggio.
«E dovrò rimanere così molto tempo?» «Non so niente».
«Sei uno stupido».
«Va’ a dirlo all’Orang-kaja».
«Sarà un urang-outan invece. I vostri capi già somigliano ai maias».
Il dayako alzò le spalle e non rispose.
Veramente Kammamuri mentiva, poiché i dayaki sono gli uomini più belli e più ben fatti che si trovino nelle grandi isole dell’arcipelago malese.
Alti di statura, di lineamenti bellissimi, di forme quasi sempre erculee, di tinta appena abbronzata, competono vittoriosamente coi malesi, coi bughisi, coi macassaresi e soprattutto coi negritos e cogli eta.
I selvaggi acceleravano sempre più la corsa, addentrandosi nella grande foresta. Pareva che si tenessero lontani dal fiume, almeno così supponeva il prigioniero.
Cominciava ad albeggiare, quando giunsero dinanzi ad un piccolo villaggio fortificato, ad una kotta cinta di altissime palizzate e difesa da profondi fossati pieni di sarmenti spinosi, ostacoli quasi insormontabili per delle persone che hanno la pessima abitudine di camminare a piedi nudi.
Passarono su un ponte volante gettato su quelle pericolose aperture ed entrarono, sempre correndo, nella fortezza, fermandosi dinanzi ad una vasta capanna, la quale s’innalzava su un gran piazzale, circondato da abitazioni di minor mole.
Tolsero a Kammamuri la rete, gli sciolsero i legacci che gli stringevano le gambe e lo spinsero brutalmente dentro la dimora, urlandogli negli orecchi: «Sbrìgati, poltrone!… Ti abbiamo portato abbastanza; ma la tua testa farà più tardi una bella figura fra le nostre collezioni».
«Che Antu e Buan vi portino all’inferno» aveva risposto il disgraziato indiano.
La capanna era quasi spoglia, non essendovi dentro che qualche stuoia variopinta e qualche vaso, però Kammamuri scorse subito, non senza una profonda angoscia, una specie di palco su cui facevano poco bella mostra tre o quattro dozzine di teste umane, sapientemente disseccate.
«Ecco un bel luogo» disse. «Che vogliano semplicemente spaventarmi o che la mia testa debba, presto o tardi, andare a tener compagnia a quei crani? Trattandosi della testa d’un indiano potrebbe far furore ed essere invidiata dalle altre tribù».
Stava contemplando quella orribile collezione, quando udì dietro di sé una voce dire in lingua puramente assamese: «Possiamo fare un po’ i conti, signor segretario del generalissimo dell’Assam? Sarete un po’ stupito di trovarmi qui, è vero?» Kammamuri aveva fatto un vero salto indietro, poiché l’aveva subito riconosciuto.
«Per Siva!…» esclamò diventando grigiastro, ossia pallidissimo. «Il favorito dell’ex rajah dell’Assam!…» «Sì, il greco Teotokris!» Lo stupore di Kammamuri fu tale, che per qualche minuto non fu capace di articolare una sola parola.
Il greco lo guardava, sorridendo ironicamente, lieto dello spavento che traspariva dai lineamenti alterati del maharatto, tenendo le mani sui calci delle due splendide pistole, a doppia canna, intarsiati di madreperla, che gli uscivano dall’alta fascia rossa.
«Voi!…» esclamò finalmente, con voce strozzata.
«Vi sorprende di trovarmi al Borneo?» «Come siete giunto qui?» «Questo è un segreto che appartiene solamente a me».
«Che io m’inganni?» «Non credo, poiché io sono realmente il greco Teotokris, l’ex favorito del rajah dell’Assam».
«Eppure io credo di sognare ancora».
«Lo vedremo fra poco».
«Che cosa volete dire?» Il greco, invece di rispondere, andò in un angolo della capanna, prese un enorme guscio di testuggine, lo capovolse e vi si sedette sopra, dicendo: «Ora possiamo discorrere, signor segretario del generalissimo dell’Assam.
Volete anche voi un sedile?» «Non ne ho affatto bisogno» rispose il maharatto.
«Dove avete lasciato il vostro padrone e signore?» «Alla foce del fiume».
«Non cominciate a mentire, signor segretario» disse il greco, sempre ironico.
«É bensì vero che la vostra barcaccia a vapore è sfuggita all’assalto dei miei dayaki e che la corrente l’ha portata via, nondimeno io non credo che abbia raggiunta la barra del Maludu. Non vi avrei sorpreso qui, in piena foresta, signor segretario del generalissimo».
Kammamuri guardò il greco, che continuava a sorridere ironicamente, poi gli disse con voce irata: «Pare che vi piaccia molto scherzare; è vero, signor Teotokris?» «Forse che non ero il favorito di quel disgraziato rajah che tanto ci teneva alle persone allegre? Ma non cercate di deviare il discorso, signor segretario del generalissimo. Vi avevo chiesto dove si trova ora il vostro padrone».
«Ti preme tanto di saperlo?» «Uh!… Di lui me ne occupo ben poco. É dell’altro che m’interesso».
«Di quale?» «Del nuovo rajah, di quel furfante di portoghese, di quel miserabile avventuriero che ha voluto mettersi in lotta con me. Quel cane non conosce ancora i greci dell’Arcipelago e non sa quanto siano vendicativi. Muoiono, e prima di morire lasciano sempre un terribile ricordo».
«L’avete chiamato un miserabile avventuriero, mi pare» disse Kammamuri, il quale aveva riacquistato, a poco a poco, il suo sangue freddo. «Voi dunque ignorate quale forza possiede quell’uomo e quante battaglie egli ha dato, insieme col suo compagno, qui e nell’India».
«Ah!… Voi volete parlare, segretario del generalissimo, di quello che si fa chiamare pomposamente la Tigre della Malesia? Farò i conti anche con quella canaglia, non dubitate!» «Se quei due prodi fossero qui, non osereste parlare in questo modo».
«Oh!… Non ho paura di quei due avventurieri».
«L’avete però provata il giorno in cui il signor Yanez alla corte del rajah dell’Assam, vi cacciò tre buoni pollici di lama nel petto» rispose Kammamuri.
«Ve ne ricordate, signor Teotokris?» Negli occhi del vendicativo figlio dell’Arcipelago greco passò come una fiamma sinistra, e i suoi lineamenti si alterarono spaventosamente.
Con un gesto rapido si aprì il giubbetto, si lacerò rabbiosamente la camicia e mise allo scoperto il suo petto.
«Ecco qui la cicatrice!» disse poi con voce strozzata dall’ira, mostrando un segno biancastro che spiccava stranamente sulla sua pelle brunastra di pescatore di spugne. «Non scomparirà che colla mia morte; ma colla mia morte deve pur scomparire l’uomo che me l’ha fatta».
«Sarà un po’ difficile» rispose Kammamuri. «Il signor Yanez e la Tigre della Malesia sono tali uomini da rovesciare il mondo».
Il greco scoppiò in una risata.
«Ah!… Voi lo credete, signor segretario del generalissimo?» «Chiamatemi semplicemente Kammamuri» rispose il maharatto, piccato da quella continua ironia. «Potete lasciare anche da parte quel signore e quel voi, poiché tutti mi hanno dato sempre del tu, non essendo mai stato io un rajah né dell’Assam, né del Bengala e tanto meno delle grandi isole malesi».
«Hai ragione: parleremo così più in fretta. I fronzoli qualche volta guastano le conversazioni».
Levò da una tasca un magnifico portasigarette d’oro, con delle cifre in brillanti e smeraldi, che certo era un dono dell’ex rajah dell’Assam, prese una sigaretta e l’accese con tutta calma.
«Discorriamo» disse poi, gettando in aria una boccata di fumo profumato.
«Chiacchieriamo già da mezz’ora, signor Teotokris, senza nulla concludere».
«Perché tu non hai voluto» rispose il greco. «D’altronde io non ho nessuna fretta».
«Che cosa dunque volete da me?» «Sapere dove si è nascosto il nuovo rajah dell’Assam e per quale motivo ha lasciato il regno, per venire a cacciare fra queste foreste».
«Se ve l’ho già detto che si trova appunto fra queste selve».
«A me non basta» disse il greco. «Voglio sapere dove si sono rifugiati. So già che sono solamente tre».
«Che valgono come trecento».
«Valessero anche come tremila, poco m’interesserebbe, poiché posso muovere, ad un mio cenno, anche diecimila dayaki».
«Chi ve li darà?» chiese Kammamuri, ironicamente.
«Il rajah bianco del lago di Kinibalu».
«Siete diventato il suo generalissimo?» «Potrebbe darsi» rispose Teotokris. «Ciò però non deve riguardarti affatto.
Sono oggi il più forte, e basta».
«Eh!… Potreste ingannarvi, signore! Il rajah dell’Assam, il mio padrone e la Tigre della Malesia, hanno anche un buon numero di guerrieri che se ne infischiano dei vostri famosi dayaki».
«Si muovano dall’isolotto, se sono capaci! La fame li costringerà un giorno o l’altro a gettarsi sull’una o sull’altra riva, e là troveranno la loro tomba».
«Correte un po’ troppo, signor Teotokris! Il fiume è ricco di gaviali e anche di testuggini e non creperanno di fame, ve l’assicuro. Sono uomini capaci di nutrirsi anche delle sole foglie degli alberi».
«Chi siete dunque voi?» urlò il greco furibondo.
«Degli uomini capaci di tutto».
«Per la mia morte!… Vedremo se sulla capanna aerea tu saprai cibarti delle foglie che coprono il tetto!…» «Mi ci proverò, quantunque io sappia a che cosa vogliate alludere, signor ex favorito del rajah dell’Assam».
«Mille demoni dell’inferno!… Mi pare che ora sei tu che cerchi di scherzare e di deridermi».
«Io!…» fece Kammamuri. «Ma no, signore. Sono un povero servo e nulla più, e non ho l’abitudine di scherzare coi pezzi grossi, siano indiani od europei».
«Vuoi dunque finirla?» urlò il greco.
«Di che, signor Teotokris?» «Di cambiarmi il discorso».
«Non so che cosa vogliate dire, mio signore».
«Per la morte di tutti i rinoceronti della terra!… Voglio sapere dove si trova il rajah dell’Assam».
«Domandatelo al bufalo che mi ha portato via. So io dove mi abbia portato? Mi trovavo su una pianta, sono caduto addosso ad un bestione che sfondava a gran colpi di corna la foresta e mi sono trovato non so dove».
«E i tuoi compagni?» «Si sono ben guardati dal lasciarsi cadere» rispose Kammamuri. «Sono stati più furbi di me, signore. Non vi narro delle storie».
«Ti credo, perché sono stato io che ho ucciso il bufalo selvaggio insieme a Nasumbata. É caduto come una pera matura sotto i colpi delle nostre pistole.
Sarei stato però più contento di portarlo qui e di levargli una buona costoletta per la mia colazione. La mangerà invece qualche altro, ma cadrà nell’agguato».
«Chi?» domandò Kammamuri.
«Alto, signorino mio. I greci dell’Arcipelago non hanno l’abitudine di svelare tutti i loro pensieri al primo individuo che càpita loro sottomano. Dunque, tu non sai dove si siano rifugiati il rajah dell’Assam ed i suoi compagni?» «No, ve l’ho già detto».
Teotokris gettò via il mozzicone della sigaretta, ne accese un’altra, poi, dopo un breve silenzio, riprese: «Tu ti credi forte, mentre non lo sei affatto. Tra qualche giorno noi ci rivedremo, amico carissimo. Ti avverto però che le foglie di banano e d’arengha saccarifera che coprono il tetto della capanna aerea saranno un po’ dure anche pei tuoi denti».
Batté le mani, e quattro dayaki, i quali probabilmente stavano al di fuori in attesa d’una chiamata, entrarono tenendo in pugno dei terribili parang di acciaio naturale, scintillanti come specchi.
Il greco fece solamente un gesto. I quattro guerrieri afferrarono brutalmente Kammamuri e lo spinsero fuori, mandando delle urla minacciose.
«Non siete gentili, pezzi di arghilah!…» disse l’indiano, tentando di ribellarsi.
Fu afferrato, gettato sul palanchino, rinsaccato nella rete e portato fuori della kotta, fra le grida minacciose delle donne e dei fanciulli che ingombravano le vie della piccola fortezza.
«Che quel cane d’un greco mi faccia tagliare la testa?» pensò Kammamuri.
«Speriamo che non sia tanto feroce verso di me, che non ho altro torto che quello di essere il servo del mio padrone».
Quattro dayaki portavano la lettiga, seguiti da due altri, i quali tenevano sulle spalle due forche, dal manico lunghissimo, che terminavano in una specie di “V” formate di rotang e di rami spinosi.
Erano delle brandil, quelle terribili forche che si mettono al collo dei prigionieri o dei pazzi per impedire loro di fare qualsiasi movimento.
In tutte le grandi isole della Malesia i pazzi abbondano, abusando troppo sovente dell’oppio, ciò che scatena in quei disgraziati una vera furia sanguinaria, che viene chiamata amoc. Per ridurli a dovere, gli indigeni hanno inventata quella strana forca la quale calma subito quei forsennati lacerando loro il collo.
La rozza lettiga girò intorno alle palizzate della kotta e si fermò dinanzi a una strana costruzione che si sarebbe ben potuta chiamare un osservatorio o, per lo meno, una casa aerea.
Su una triplice fila di bambù alti non meno di quindici metri, incrociati e legati insieme da rotang e solidamente piantati nel terreno, si ergeva una capannuccia formata di stuoie e di foglie di banano coi tetti molto sporgenti.
Delle kakatoe dal ciuffo giallo e roseo strepitavano su dei bastoni piantati sui quattro angoli della capannuccia, trattenute forse da delle sottilissime liane.
Un dayako liberò Kammamuri dalla rete, gli slegò le braccia, poi gli disse brevemente: «Sali».
«Dove?» chiese il maharatto stupito.
«Lassù».
«In quella gabbia?» «Così devi obbedire».
«Non sono una scimmia».
«Non importa: è l’ordine».
«Che cosa devo fare lassù?» «Io non lo so».
«Addomesticare forse quelle kakatoe?» «Questo non mi riguarda» rispose il dayako.
«Devo dunque salire?» «E presto, se non vuoi che proviamo i nostri brandil sul tuo collo».
«Dimmi almeno dove si trova la scala, poiché non la vedo».
Il selvaggio gli mostrò due lunghissimi e grossissimi bambù, segnati da profonde tacche alla distanza di due spanne l’una dall’altra.
«Ho capito» disse Kammamuri. «Questi selvaggi amano la ginnastica degli urang-outan. Andiamo a vedere che cosa c’è in quella gabbia. La vista non mancherà lassù e deve essere certamente interessante».
Il maharatto s’aggrappò ai bambù e cominciò a salire, mentre i dayaki lo seguivano cogli sguardi, agitando i loro lucentissimi parang ilang e le brandil in modo poco rassicurante.
Forse loro spiaceva di non tagliare lì per lì quella testa, la quale, data la tinta molto diversa da quella giallognola dei loro compatrioti, non avrebbe certamente mancato di produrre un bel contrasto nelle loro collezioni.
In un paio di minuti Kammamuri raggiunse una specie di piattaforma che si estendeva sotto la capanna aerea, formata da sottili bambù strettamente intrecciati e che servivano come di base, poi con un salto s’aggrappò alla piccola veranda che girava intorno a quella bizzarra costruzione.
«Che specie di prigione è questa?» si chiese. «Sono stato due anni sulle rive del Kabatuan col mio padrone, ma non ho mai veduto di queste gabbie sospese fra cielo e terra. Servirebbero benissimo per l’allevamento degli uccelli».
Fece il giro della veranda e trovata una piccola porta, entrò non senza una certa apprensione.
Il pavimento della capanna aerea era ingombro di foglie secche, le quali formavano delle vere montagnole. I mobili mancavano assolutamente; non vi era nemmeno un vaso di terra per la provvista d’acqua.
«Che quel furfante d’un greco voglia proprio farmi morire di fame e di sete?» si chiese il disgraziato rabbrividendo.
Aveva fatto qualche passo innanzi, quando vide uno di quei cumuli sollevarsi, ed un uomo che aveva la pelle quasi nera apparve, dicendo in lingua dayaka un po’ storpiata: «Twan-uropa?» Con questo nome tutti i selvaggi delle grandi isole malesi designano gli uomini che non appartengono alla loro razza. Kammamuri non rispose: guardava attentamente quell’uomo, che pareva si fosse svegliato in quel momento, domandandosi con quale individuo avesse da fare.
Non doveva essere un dayako, poiché invece di essere di statura alta, era molto basso, appena un metro e mezzo, ed invece di avere la pelle giallognola, l’aveva oscurissima.
E poi anche i lineamenti erano affatto diversi. Aveva la testa grossa, fasciata da bende insanguinate, che lasciavano vedere qua e là delle ciocche di capelli neri e cresputi, il naso corto colle pinne allargate, la bocca grande, le labbra grosse senza essere sporgenti, il mento piccolo, gli occhi orizzontali ed aperti, e il corpo esile colle spalle assai incurvate.
Non era necessaria una grande conoscenza delle razze malesiane per riconoscere in quel brutto omiciattolo uno di quei selvaggi che vivono nell’interno delle grandi isole malesi, in mezzo alle più fitte foreste e che vengono chiamati comunemente negritos o negritos eta.
Differiscono completamente sia per il tipo, sia per le loro abitudini dai battiassi di Sumatra, dai tagali delle Filippine, dai dayaki del Borneo e dai malesi, eppure la loro razza è abbastanza diffusa, poiché si ritrovano perfino nell’Africa meridionale e centrale e nelle isole Andamane che sono così prossime all’India. Come si sono, quei pigmei, che non somigliano alle altre razze, dispersi per il mondo? Mistero. Nessuno scienziato ha saputo finora spiegare come si trovino contemporaneamente nelle grandi isole malesi e sul Continente Nero, che è così lontano.
Kammamuri, come abbiamo detto, non aveva subito risposto, tanto era rimasto sorpreso di trovare in quella gabbia aerea quello strano personaggio sgusciato da uno di quegli ammassi di foglie secche.
«No tuan-uropa?» chiese il negrito vedendo che l’indiano non si decideva ad aprire la bocca.
«Niente uropa» rispose Kammamuri. «Che cosa fai tu qui?» «Aspetto di essere guarito» disse il negrito, il quale pareva che non fosse troppo imbarazzato a rispondere in lingua dayaka.
«Per andartene?» Il negrito fece una brutta smorfia e fece tintinnare rabbiosamente gli anelli di ottone che gli ornavano le magre braccia.
«Mi hanno spaccata la testa con un colpo di parang ilang» disse poi. «Una testa fessa non può fare una troppo buona figura sul palco del capo dei dayaki.
Quando sarò guarito mi decapiteranno».
«Chi?» «I dayaki».
«Ah!… Canaglie!…» gridò Kammamuri. «Non credevo che spingessero la loro ferocia fino a questo punto. Dove ti hanno catturato?» «Nella foresta, mentre stavo inseguendo un tapiro».
«Quando?» Il selvaggio allargò le mani, contò le dita parecchie volte, poi scosse la testa come se volesse rinunciare a quel calcolo troppo difficile per le razze primitive.
«Non so» disse poi.
«Questi imbecilli non hanno alcuna nozione del tempo» pensò Kammamuri.
«Ciò d’altronde poco m’interessa».
Fece il giro della capannuccia, poi tornando verso il negrito, il quale lo seguiva attentamente cogli sguardi, gli chiese: «Ti portano sempre da mangiare?» «No».
«E da bere?» «Mai».
«E tu come hai potuto resistere per tanti giorni?» Il negrito alzò le spalle e non rispose.
«Ora comprendo» disse Kammamuri. «Il greco non ha scherzato quando mi ha detto di divorare le foglie che coprono il tetto della capanna. Per Siva, Brahma e Visnù! Io ho veduto delle kakatoe appollaiate su dei bastoni. Per un po’ di giorni la colazione è almeno assicurata, Ed il padrone? Ed il signor Yanezl E la Tigre della Malesia? Che cosa penseranno di me? Per la morte di Kalì, io non voglio morire di fame e di sete in questa piccionaia! Questo scimmiotto non mi pare che sia uno stupido. Se a me preme la pelle, a lui premerà di porre in salvo la sua testa e mi aiuterà. Non si tratta che di scendere; una cosa facilissima quando i guardiani dormono; se dormiranno».
Tornò ad uscire, mentre il negrito andava strappando dalle pareti della capanna delle fibre di noci di cocco che formavano delle ruvide stuoie, d’una solidità però a tutta prova.
Nella kotta alcuni indigeni e molte donne, accompagnate da gruppi di ragazzi, andavano e venivano attraverso gli stretti sentieri del villaggio; dall’altra parte, ad una distanza di cinque o seicento metri, serpeggiava il fiume, interrotto di tratto in tratto da isolotti boscosi.
Kammamuri guardò sotto la capanna aerea e scorse quattro guerrieri seduti a terra, intorno ad una gigantesca pentola circondata da alcuni tizzoni.
«Pare che facciano buona guardia» mormorò il maharatto. «Che questi briganti siano peggiori dei thugs delle Sunderbunds? Ah!… La vedremo! Si potrebbe intanto pensare alla colazione. Sono già dieci ore che io digiuno e chissà da quanti giorni quel povero selvaggio sta guardando la luna ed il sole».
Fece nuovamente il giro della piccola veranda, poi avendo trovato un bambù più alto degli altri, che sporgeva oltre il tetto, si mise a salire.
Su dei bastoni piantati nelle foglie secche di banano che formavano il tetto, stavano appollaiate otto splendide kakatoe dalle penne candidissime ed i ciuffi o giallo-aranciati o delicatamente rosei, tenute prigioniere da dei sottilissimi rotang.
«Che siano delle divinità?» si chiese il maharatto. «Bah, ne faranno a meno.
Si troveranno forse meglio nei nostri corpi. Cane d’un greco!… Non mangerò le foglie secche del tetto io! Non farò degli arrosti; ma per qualche giorno non creperò di fame come tu speravi».
La ricomparsa del greco
12 Maggio 2015 Di Leave a Comment
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